Il modello lavorativo Wandrè - InEsergo

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23 Ottobre 2022 - Musica

Sulle ali di un sogno a sei corde
  
Il modello lavorativo "Wandrè"
 
“Opere di arte pop”, “sculture fruibili per la musica”, “oggetti dotati di anima propria”, “opere ribelli”. Sono le definizioni che lo scrittore Marco Ballestri attribuisce alla chitarra elettrica nelle particolari interpretazioni e rivisitazioni avvenute negli anni ‘60 ad opera di un liutaio italiano, Antonio Pioli, in arte Wandrè.  

Siamo nel luglio 2022, presso il Teatro Miotto di Spilimbergo, una cittadina in provincia di Pordenone.

Sul palco del teatro sono esposte le chitarre oggetto della mostra, sullo schermo un proiettore diffonde immagini in bianco e nero, scorrono scene dell’Italia creativa, laboriosa, intraprendente degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso e la voce narrante di Marco si lascia ascoltare, riportandoci indietro nel tempo, nel dopoguerra, evocando atmosfere riconducibili al neorealismo di Roberto Rossellini e al realismo magico di Federico Fellini.

Il racconto ci porta a Cavriago, un piccolo paesino in provincia di Reggio Emilia, dove Wandrè creava strumenti unici, strumenti che non rispondevano a un design prettamente funzionale ma a uno stato emotivo: dovevano divenire una protesi dell’artista per attuare il transfert emotivo. Venivano realizzate forme anche bizzarre, ricche di simbolismi, aggiunti colori mai visti prima su uno strumento musicale, si sperimentavano innovazioni tecniche con nuovi materiali come l’alluminio per il manico, che rendeva gli strumenti anche particolarmente leggeri.

Le mode dell’epoca influenzavano decisamente la linea costruttiva: nel 1957 Harry Belafonte lancia il ballo calypso e subito Wandrè reagisce all’input, raffigurando sul corpo di una chitarra due danzatori; nell’epoca d’oro di Brigitte Bardot viene costruita una sei corde ispirata all’attrice, avventurandosi in verniciature fantasiose che anticipano l’avvento della psichedelia; la luna calante diventa musa ispiratrice per una chitarra denominata Selene; viene creato uno strumento chiamato Rock Oval (siamo negli anni dell’esplorazione spaziale) che si rifà alle immagini degli UFO e così tantissime altre chitarre che assurgono a estensione naturale della creatività dell’artista. Gli strumenti di Wandrè li abbiamo visti usati da artisti come Celentano, Little Tony, Francesco Guccini e molti altri.

La favola raccontata da Marco Ballestri nel suo L’artista della chitarra elettrica non si limita alla storia delle creazioni artistiche. Wandrè non è stato soltanto un genio della liuteria ma anche un uomo che ha contribuito a sviluppare un “modello” di lavoro e di vita grazie alla sua formazione, a un percorso lavorativo che va dall’apprendista operaio al capocantiere edile, all’esperienza di studio nella scuola convitto di Rivaltella, alla partecipazione al Comitato di Liberazione Nazionale durante la Seconda guerra mondiale.

La fabbrica rotonda di Cavriago, dove venivano realizzate le chitarre di Wandrè, era un open space con un’enorme finestra circolare e un giardinetto centrale. Una pianta pentadecagonale, ovvero 15 angoli di uguale apertura con lati di 4,5 mt, che conferivano alla struttura un aspetto quasi circolare. Gli operai dovevano comunicare tra loro e potevano esprimere la loro creatività con delle variazioni sugli strumenti da lui prodotti, nella forma delle “buche a f”, nelle verniciature, motivo per cui non esiste una chitarra perfettamente uguale all’altra: ognuna è frutto, oltre che del progetto originale, dell’energia creativa del singolo individuo che l’ha lavorata in quel momento.

Wandrè era un acerrimo nemico dell’alienazione degli operai, delle azioni ripetitive tipiche di una catena di montaggio: teorizzava che il lavoro rimanesse pur sempre una costrizione, per cui l’operaio doveva poter osservare il cielo simbolo della libertà, per ricordare sempre di esser nato libero.

Nella fabbrica si esercitava una leadership convocativa, per cui i dipendenti erano coinvolti in tutta la produzione, dallo sviluppo dei progetti alla realizzazione della pubblicità, ma soprattutto la fabbrica era sempre aperta, a qualunque orario l’operaio poteva entrare anche per produrre dei manufatti propri, l’importante era portare a termine il compito assegnato.

I lavoratori erano stimolati ad avere una formazione artistica e culturale, a imparare lingue straniere, a suonare strumenti musicali, a specializzarsi in attività che permettessero loro di sviluppare competenze al di fuori di quelle che servivano nella fabbrica. Tutto ciò contribuiva a una migliore organizzazione del lavoro insieme al benessere psicofisico. Autorità e responsabilità non erano più delegate per gradi, ma per funzioni, per propria interiore capacità e non per iniezioni dall’alto; non venivano più premiate le persone fedeli, ma quelle leali, competenti e creative, ricche di risorse interiori, curiose culturalmente, aperte e intraprendenti. Questa realtà ha molte affinità con la “strategia” industriale di Adriano Olivetti.

A Cavriago il modello Wandrè fu addirittura contestato dai sindacati di Reggio Emilia, in quanto smontava la funzione stessa del sindacato, che in tal modo non aveva più senso di esistere. Questo sogno, sia per Wandrè che per Olivetti, non durò molto: Wandrè fu costretto a chiudere la fabbrica rotonda il 31 dicembre 1968, Olivetti morì in circostanze particolari il 27 febbraio 1960 nel momento in cui la sua azienda si stava espandendo nel mondo.

Oggi, nel 2022, le cronache dei giornali ci raccontano di dipendenti di famose multinazionali costretti a “fare pipì” dentro bottiglie di plastica per i ritmi serrati imposti, con una logica di produzione che non permette loro neanche di andare in bagno, e la piccola e media impresa viene distrutta sistematicamente dalle “crisi” economiche, pandemiche ed energetiche, volute e create. C’era chi, alle soglie del nuovo millennio, ci diceva che avremmo lavorato un giorno di meno guadagnando come se avessimo lavorato un giorno di più!

Wandrè e Olivetti sono stati “uomini straordinari”, per parafrasare G.I.Gurdjieff, che ci hanno prospettato modelli e qualità della vita assolutamente compatibili con un essere umano in armonia, che è felice del proprio lavoro, inteso anche come espressione creativa del proprio essere. Ora che siamo invasi da un materialismo scientifico che vuole farci credere che siamo esclusivamente macchine biologiche, negando in toto la natura spirituale dell’uomo, mi chiedo: siamo sicuri che la direzione presa dal nostro modello produttivo occidentale rappresenti la migliore scelta possibile?

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