Volevo parlare d'altro
Questa non è la storia di Francisco Javier Sanchez Vara, pertanto la lettura non può condurci lungo l’ondulata valle del fiume Henares, affluente del Jarama, a sua volta affluente del Tajo. No, non siamo lì, nella cittadina spagnola di Guadalajara (omonima della più grande e famosa sorella messicana), anticamente chiamata Arriaca (fiume di sassi); e le origini del racconto che vi vado narrando non vanno cercate il 18 luglio del 1979, data in cui Francisco Javier Sanchez Vara nacque.
Risulta quindi del tutto inutile sondare gli stati d’animo da lui provati quando, appena undicenne, matò in pubblico il suo primo vitello nell’arena di Higuera de Las Dueñas, poco prima di entrare nella prestigiosa scuola di corrida “Marcial Lalanda” di Madrid. Quel giorno era un giorno del 1990 e da sei lunghi anni il colombiano Álvaro Múnera aveva definitivamente smesso di camminare, costretto a vita su una sedia a rotelle.
Il grave infortunio si dia il caso che successe proprio in Spagna il 22 settembre del 1984 in un luogo ben preciso che, ironia della sorte, porta il suo stesso cognome: Munera. Quel giorno era il giorno (e il luogo) scelto dall’Universo per fargli capire una volta per tutte in modo chiaro, duro e inequivocabile che quella non era la sua strada. Avrebbe dovuto essere forse la strada di suo padre, il quale caricò sin da subito sulle spalle del piccolo Álvaro la passione frustrata.
Nato in un giorno d’autunno del 1965 a Medellin da una coppia di architetti, in casa non sentiva parlare d’arte, di chiese, palazzi o politica, nemmeno il Sacro Calcio sudamericano era menzionato. Esisteva un solo argomento, un unico interesse, un’ossessione palpabile: la tauromachia. La Feria Taurina di Medellin era un appuntamento fisso per padre e figlio, fin dalla sua infanzia.
Ma una vita influenzata da altri necessita di alcuni aggiustamenti o, a seconda dei casi, di violenti scossoni per ritrovare la rotta. Il primo di essi avvenne all’età di 14 anni quando, da novellino, uccise durante una corrida nella Piazza del Municipio di Fredonia, una giovenca in stato di gravidanza. Nel momento in cui tirarono fuori il corpo morto del feto, pianse e vomitò. Prontamente arrivò a rassicurarlo la pacca sulla spalla del suo agente, che bollò l’accaduto come inconvenienti di lavoro. A quell’età, sconquassata da emozioni in tempesta, gli adulti di riferimento sono fari. Alcuni, però, non illuminano.
Il secondo avvertimento fu una nuova indelebile sofferenza interiore causata dalla vista del toro che stava matando in allenamento. L’animale, con le viscere penzolanti dallo squarcio causato dalla sua spada, tentava di aggrapparsi alla vita con tutto se stesso. Ciò che aveva davanti agli occhi riaccese la sua sensibilità e la consapevolezza del ritiro. Ma aveva da poco vinto la Feria de La Candelaria de Medellin, quella a cui assisteva da spettatore col papà. Era ormai un giovane torero in ascesa, ed era già pronto un importante viaggio oltreoceano, in Spagna, per affermarsi definitivamente.
Partì, seppur con le orecchie trafitte dal respiro rauco e lento di quel toro morente, come un acufene. La Macchina a pieno regime non si ferma. Welcome to the machine. In terra iberica combatté 22 corride in pochi mesi prima di quel 22 settembre 1984, quando lui, Álvaro Múnera, entrando nella Plaza de Toros de Munera, ritrovò se stesso. Coincidenze degne di un racconto di J. L. Borges. Torciopelo era il nome del suo possente avversario, già pungolato a dovere e sfiancato, non così tanto però da lasciar andare quella vita che il suo sistema nervoso centrale, rispondente al dolore come quello umano (vero Lollobrigida?), sentiva uscirgli a fiotti dalle ferite. Caricò, Álvaro non fece in tempo a spostarsi e l’incornata di Torciopelo lo fece volare in aria. Quando atterrò la quinta vertebra cervicale fece crack. Aveva 19 anni.
La ferita fisica, percorrendo strade insondabili, curò le due passate ferite interiori. Trasferito al Jackson Memorial Hospital di Miami con la certezza di non poter più camminare, cominciò una parziale riabilitazione fisica, ma soprattutto la sua riabilitazione spirituale. La palpabile avversione per la tauromachia delle persone conosciute in Nord America l’aiutò a cambiare completamente prospettiva, trasformandolo in un attivista contro le Corride e, più in generale, contro il Maltrattamento Animale. Álvaro ebbe la possibilità di rinascere.
La storia del torero pentito viaggia sul web da molti anni, spesso associata a un’immagine estremamente toccante: il matador seduto ai bordi dell’arena in un atteggiamento di sconforto o di resa mentre il toro è lì accanto a guardarlo immobile, senza attaccarlo. C’è chi ha descritto la situazione rappresentata con certezza assoluta, spiegando il malessere fisico (o morale) provato dal torero e la pietà dell’animale che “si è fermato accanto a lui senza ricorrere ad alcuna violenza” come se avesse capito la sofferenza dell’uomo. Ma la realtà contenuta all’interno dell’attimo immortalato dice altro. Primo: quella situazione è un momento dello spettacolo in cui l’uomo, piacevolmente insensibile, umilia l’animale, ormai senza più forze, simulando noncuranza o spavalderia. Secondo: il torero in foto non è Álvaro, bensì Francisco Javier Sanchez Vara.
Sarò sincero. I miei propositi iniziali avrebbero voluto disquisire di fake news, superficialità d’informazione, ignoranti certezze. E poi ancora sull’atrofizzazione costante dei cinque sensi a causa di inconsapevolezza digitale e frenetica sedentarietà.
Ma la storia ha preso più spazio del dovuto, tanto da indagarla e riviverla in ogni infinitesimo dettaglio. Ormai fuori rotta e fuori tema, scrivo sul banco e poi scendo fino al pavimento, esco dall’aula e, assecondando la mia sensibilità ai luoghi e alle distanze, mi ritrovo sulle sponde sassose dell’Henares, la cui esistenza, prima di immergermi negli avvenimenti narrati, mi era ignota.
Ascoltando il mormorio dell’acqua, scorro con la corrente fino a raggiungere il Jarama e poi ancora il Tajo che dopo 1008km di vita sfocia, da portoghese, nell’Atlantico. Lo stesso Oceano che riceve le acque del Rio che bagna Medellin in Colombia, attraverso il Negrì, il Cauca e la possente Magdalena. Scrivo leggero e mi libro a volo d’uccello, trovando nessi tanto strambi quanto verosimili. Migro con ali d’inchiostro sempre più in alto, oltre l’esosfera, il Sistema Solare e le Galassie.
Al contrario dell’infinita solitudine digitale che sovente ci ingigantisce, nell’Universo che ci contiene ogni cosa perde importanza e acquista senso. Osservati da distanze siderali siamo niente di più che atomi in connessione: Álvaro a Francisco; Múnera a Munera; l’essere umano a qualsiasi altro essere vivente; la realtà alla finzione; chi scrive a chi legge, in tempi sì diversi ma condividendo lo stesso immenso e indefinibile…
Spazio.