La vacuità dell’indispensabile
“Anche l’amore della meraviglia par che si debba ridurre all’amore dello straordinario e all’odio della noia ch’è prodotta dall’uniformità”
Giacomo Leopardi
Qualcosa sta cambiando nel teatro, perlomeno nello scenario genovese che per ovvi motivi mi è più familiare e conosciuto. Sono alcuni anni, infatti, che si stanno verificando mutamenti nelle forme e nei linguaggi e, forse, nel concetto di teatro stesso. A prescindere da ciò che viene portato in scena, che si tratti di un testo prettamente classico o più moderno, le regie degli spettacoli mostrano da tempo un altro taglio. Gli attori che vediamo sul palco, sempre più spesso, non sono semplicemente loro, spogli e veri, all’univoco servizio della corporeità e della relazione reciproca: le scenografie allestite vengono arricchite con maggiore frequenza di molteplici supporti, visivi e auditivi, che catturino l’attenzione dello spettatore. In scena osserviamo schermi, luci particolari, oggetti elaborati, raffigurazioni estremamente realistiche, ascoltiamo moltissima musica d’atmosfera. Insomma, tutto è contornato da una fantasmagorica maestosità nel senso più cinematografico del termine. Anche i dialoghi, i monologhi, i tempi di reazione, le interazioni, le pause sono portatori di una suggestione innovativa. Il rapporto stesso degli attori con il pubblico è cambiato sulla scorta di questa nuova concezione.
L’abbattimento della quarta parete è meno frequente in quanto la reciprocità tra i protagonisti e gli astanti risulta maggiormente inconsueta e il fenomeno di immedesimazione di chi guarda subisce conseguentemente una trasformazione. Con ciò non voglio dire che ci si emozioni di meno o che risulti più arduo entrare in empatia con chi recita davanti ai nostri occhi, ma semmai che il coinvolgimento risulta diverso, in un certo senso più distaccato e astratto. Storicamente il teatro ha sempre fatto da specchio per il pubblico, poiché la scena era occupata da altri esseri umani che inscenavano vicissitudini umane; ora la visione di uno spettacolo teatrale spesso e volentieri è accomunabile a quella di un film. È come se si volesse cercare di introdurre, nelle regie e scenografie moderne, quella perfezione, quella cura minuziosa dei dettagli, il realismo incondizionato e gli elementi di fascinazione tipici della pellicola. Gli spettacoli sembrano pensati per un pubblico medio più avido (o incapace?) di immaginazione e di fantasia e probabilmente più incline alla perdita di attenzione.
Si può dunque affermare che il teatro stia introducendo delle contaminazioni nel proprio linguaggio, nelle fondamenta che lo costituiscono da sempre. Non voglio polemizzare su quanto sia giusto o sbagliato, anche perché sinceramente non credo sia questo il punto. Penso che sia naturale che accada, semplicemente, perché il teatro è arte, una forma di intrattenimento che viene proposta ma anche venduta ed è imprescindibile che le persone gradiscano ciò per cui pagano il biglietto.
È palese che il pubblico che si reca a teatro, anche il più appassionato e fedele alla sua classicità, non sia lo stesso degli inizi, di cinquanta e nemmeno di venti o dieci anni fa: quello attuale è costituito di una comunità di individui facili alla noia, con tempi di attenzione decisamente brevi e tanta smania di guardare qualcosa di grandioso, di sublime, di rimanere incantati da ciò che hanno dinanzi, di esserne in qualche modo catturati al primo sguardo. Questa è la richiesta allo stato delle cose e pertanto il teatro, come qualunque altro genere di attrazione, deve in qualche modo conformare la sua offerta.
Le regie stanno procedendo verso la soddisfazione dei bisogni di questa nuova società. La produzione del Teatro Nazionale di Genova, la mia città, è un esempio lampante di tale modus operandi, specialmente da quando ne è direttore artistico Davide Livermore. Il teatro si evolve e si adegua ai cambiamenti del contesto, prediligendo palesemente una maggiore fruibilità degli spettacoli.
Assistere a questa metamorfosi, da appassionata, ha un sapore agrodolce. Sicuramente non sarò io, seppur nostalgica dei tempi andati, ad asserire che quanto contempliamo oggi non è più teatro: il teatro è di tutti e per tutti - per antonomasia - e se lo si sta rendendo accessibile, conoscibile e comprensibile alla maggior parte delle persone significa che il suo ruolo viene pienamente adempiuto. Certo, se si vanno ad analizzare più criticamente e profondamente le motivazioni di tali processi si potrebbero provare sensazioni di amarezza, sconforto, disillusione e perché no, anche di sfiducia nel genere umano, che in un modo o nell’altro sembra dirigersi verso una deriva di superficialità e di vivacità mentale ridotta ai minimi termini. Ma preferisco non fossilizzarmi su questa percezione cinica e disfattista del cambiamento. Voglio sognare che le innovazioni, a prescindere da ciò che le implica, siano apportatrici di trasformazione, rivoluzione. Il cambiamento comporta un movimento e se ci si muove sicuramente si finisce da qualche parte: perché non potrebbe essere in un posto migliore? Del resto, non è forse compito dell’arte risvegliare intelletti dormienti?