Casomai non vi rivedessi...
“Truman: Chi sei tu?
Christof: Sono il creatore di uno show televisivo che dà speranza, gioia ed esalta milioni di persone.
Truman: E io chi sono?
Christof: Tu sei la star!
Truman: Non c'era niente di vero?
Christof: Tu eri vero! Per questo era così bello guardarti. Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te... le stesse ipocrisie, gli stessi inganni; ma nel mio mondo tu non hai niente da temere... Io ti conosco meglio di te stesso!
Truman: Non ho una telecamera nella testa!
Christof: Tu hai paura... per questo non puoi andare via. Stai tranquillo... ti capisco. Ho seguito ogni istante della tua vita. Ti ho seguito quando sei nato. Ti ho seguito quando hai mosso i tuoi primi passi. Ti ho seguito nel tuo primo giorno di scuola. Il momento in cui hai perso il tuo primo dentino... come fai ad andartene? Il tuo posto è qui, con me! Dai... dì qualcosa... accidenti Truman, vuoi parlare? Siamo in televisione! Sei in diretta mondiale!”
Quello che avete appena letto è un dialogo tratto dalla scena finale di uno dei film che più ho amato: The Truman Show. Truman Burbank, un trentenne apparentemente solare e innamorato della vita, sprofonda in una vera e propria crisi esistenziale quando realizza, dopo aver assistito a una serie di bizzarri eventi, di essere stato il protagonista di un reality show fin dal momento della sua nascita. L'isolotto su cui abita, Seahaven, è un vero e proprio set cinematografico: il giorno e la notte sono artificiali, così come il mare e tutti i fenomeni atmosferici. Persino le relazioni sociali si rivelano fittizie: i genitori, l'amico d’infanzia Marlon e la moglie Meryl, non sono altro che attori pagati dalla casa di produzione, mandati lì con lo scopo di manipolare e influenzare le scelte di Truman, attenendosi così a una sceneggiatura precedentemente stabilita. Il regista e gli autori arrivano perfino a partorire l'idea di mettere in scena un vero e proprio trauma, ovvero la morte del padre in mare, per inculcare nel povero Truman la paura del cambiamento e il timore di evadere da quel mondo ideale così abilmente costruito. Il tutto per il raggiungimento di un unico fine: soddisfare l'insaziabile fame di un pubblico ormai sempre più pigro e passivo.
Ma l'unico a pagarne il prezzo è proprio Truman, che si percepisce sempre più soffocato dalla sua inettitudine, dall'amara consapevolezza di non sentirsi amato e di non essere riuscito a realizzare i suoi desideri più profondi, come quello di viaggiare verso mete lontane o dedicarsi alla ricerca dell'unica donna per la quale ritiene di avere provato dei sentimenti autentici: Lauren, una comparsa costretta successivamente dalla regia ad abbandonare il set e che, mossa dalla compassione e dal suo amore per Truman, decide di ribellarsi alla politica dello staff nel vano tentativo di entrare in contatto con il protagonista per porlo di fronte alla sua triste condizione. È proprio l’autenticità di questo amore a rappresentare la spinta propulsiva che consentirà a Truman di affrontare i propri limiti e di autodeterminarsi al di fuori di quella campana di vetro, spacciata come “realtà”.
Ora, al di là delle interpretazioni politiche dei complottisti più sfegatati, che ricercano costantemente il “nemico” nell’altro da sé, ritengo che questa pellicola voglia rappresentare principalmente l’eterno conflitto che l'essere umano vive con i propri demoni interiori, in relazione a una realtà che non sempre appare chiara e coerente con le sue aspettative. Si può sicuramente convenire sul fatto che la nostra vita si svolga esattamente come uno spettacolo che ha luogo su un palcoscenico. Ma è anche vero che noi esseri umani, in base alle relazioni più o meno sane o agli eventi nei quali finiamo per essere coinvolti, tendiamo spesso a perdere di vista il nostro ruolo, riducendo l’esistenza a quella di un timido e rassegnato spettatore per paura di far fronte alle difficoltà quotidiane, per non prendere atto delle conseguenze delle azioni nostre o di quelle altrui, per fuggire al dolore che riteniamo di non saper gestire. Ma la verità è che così facendo viene meno il principio fondamentale su cui si basa la nostra esistenza: la cura. Perfino Martin Heidegger definisce la cura come struttura stessa dell’esistenza. È ciò che si cela dietro il bisogno di possesso, il desiderio, l’andare verso le cose e gli altri. A tal riguardo Heidegger precisa, tuttavia, che esistono due modi di prendersi cura: da una parte c’è una cura inautentica che ci fa sostituire all’altro, agevolandolo di fronte alle difficoltà; dall’altra c’è una cura autentica che, di converso, si traduce in un aiuto verso l’altro a divenire se stesso. La prima conduce, inevitabilmente, a una condizione di dominazione, a rapporti malsani, manipolatori e basati sulla dipendenza, sottraendo all’altro la sua stessa cura; la seconda forma di cura, al contrario, permette a entrambi i soggetti che si ritrovano gettati nel mondo e si pongono in relazione fra loro, la possibilità di esprimersi e autodeterminarsi nel rispetto reciproco. Rispetto che ben si intuisce nella risposta finale di Truman e che squarcia il velo dell’ipocrisia e della prevaricazione:
“Casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buona sera e buona notte.”