Giuseppe Tornatore, l'eterna dicotomia tra sogno e illusione
Da fan della prima ora mi accingo a scrivere con convinzione ed entusiasmo un pezzo su Giuseppe Tornatore, mio conterraneo e regista che ritengo una delle personalità più interessanti del cinema italiano tout court. Mentre lo faccio, vengo letteralmente travolto dalle note della colonna sonora del film La leggenda del pianista sull’oceano. La musica diviene, ancor di più, la mia devota compagna di viaggio tutte le volte che sento l’urgenza di mettere nero su bianco un semplice pensiero o qualcosa di più profondo. Ho visto e rivisto tutti i lungometraggi del regista siciliano ma non è mia intenzione (perlomeno in questa sede) redigere la classica retrospettiva, bensì approfondire alcune tematiche che vi sono legate, come con un sottile filo di Arianna.
“Ho un mio personalissimo teorema: amo la Sicilia, ma per esprimere tutto il mio amore ne devo stare lontano. Quando ci torno, riprovo tutte le contraddizioni, ritorna tutta la mia rabbia, l’impotenza. Sono abbastanza pessimista, anche se vedo la speranza nei giovani”. L’illusione che cozza inesorabilmente con la realtà, il desiderio che fa a pugni con la consapevolezza di non poterlo realizzare, la rabbia che va a braccetto con la disillusione, la fine di un sogno e la componente onirica: sono solo alcuni dei temi che fanno capolino con una certa frequenza nei film di Tornatore, i quali, non a caso, molto spesso hanno come location la Sicilia. Paesini sperduti dalla terra brulla, dove l’arsura sembra addormentare la mente dei pochi sparuti abitanti, assumono le sembianze di veri e propri set a cielo aperto. È il caso di Nuovo Cinema Paradiso, capolavoro indiscusso della cinematografia tornatoriana e premiato con un Oscar nella categoria “miglior film straniero”. La pellicola rappresenta il personale omaggio alla settima arte del regista siciliano - che appare in un cameo nel finale, alle prese con l’inserimento di una bobina.
Nuovo Cinema Paradiso è ambientato in un picolo paesino della Sicilia negli anni ’50 (Giancaldo nella finzione, Palazzo Adriano nella realtà) e narra la vita (dalla fanciullezza all’età adulta) di Salvatore Di Vita, che decide di fare ritorno nella propria terra natia una volta divenuto regista affermato a Roma. Le contraddizioni di cui parlava Tornatore affiorano prepotentemente al rientro del protagonista in Sicilia, dove vige un immobilismo nemmeno troppo latente; il tempo sembra essersi fermato e quel senso di impotenza che attanaglia le viscere si percepisce appieno. L’inadeguatezza mista all’illusione che qualcosa - non si sa cosa - possa cambiare è tipica di noi siciliani, ce la portiamo dietro sin dalla culla. Una volta messa a fuoco questa problematica non ci restano molte possibilità: o si lotta con tutte le forze per sovvertire un ordine già pressoché prestabilito, o si evade (come fa Salvatore) nella speranza di potersi esprimere pienamente, misurandosi con realtà maggiormente organizzate. Il detto cu nesci arrinesci (letteralmente chi va fuori si realizza) fa parte, ahimè, del nostro DNA. Si tratta davvero di una questione atavica, ancestrale, connaturata all’essere siculi.
Tuttavia, ahimè, non sempre cu nesci arrinesci: pensiamo a Stanno tutti bene, altro titolo emblematico nella cinematografia di Tornatore. Qui un padre siciliano oramai anziano, interpretato da un magistrale Marcello Mastroianni, va alla ricerca dei figli sparsi per l’Italia nella speranza di far loro una sorpresa gradita. Figli che non hanno saputo imboccare una propria strada: nessuno è riuscito a realizzarsi. La loro vita va avanti tra espedienti e bugie. Per timore di infliggere un dolore troppo grande da sopportare decidono di mettersi d’accordo mentendo al padre. Eppure, una volta scoperta la menzogna, l’anziano padre, intristito e immalinconito, fa ritorno nella sua Sicilia raccontando ugualmente alla gente che i suoi figli “stanno tutti bene”.
È in film come Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, ma anche ne L’uomo delle stelle, che viene fuori prepotentemente la vena intimista e malinconica di Tornatore, così come la dicotomia tra amore e odio per la terra natia e, di conseguenza, i grovigli mai del tutto disciolti, connaturati nell’animo umano. Si tratta essenzialmente di titoli che non hanno usufruito di un grosso budget, a differenza di Baaria (Bagheria in dialetto), altro lungometraggio ambientato in Sicilia ma con disponibilità economiche molto più cospicue. Un flop, a parere di chi scrive: eccessivamente lungo e macchiettistico.
La componente onirica è presente in maniera diametralmente opposta in L’uomo delle stelle da una parte e in Una pura formalità dall’altra. Mentre Nuovo cinema Paradiso rappresentava la magia del cinema, L'uomo delle stelle raffigura il cinema come tradimento, la negazione del sogno stesso. Joe Morelli, interpretato con cinismo da Sergio Castellitto, è un venditore di sogni, millanta conoscenze e agganci inesistenti con la "gente che conta", vende illusioni e un futuro da attori/attrici attraverso grotteschi provini a cielo aperto, pur essendo sprovvisto dell'elemento imprescindibile della settima arte: la pellicola. Il film si ambienta nella Sicilia di inizio anni '50, anni in cui la politica prometteva l'America, proprio come Morelli, in questo amaro parallelismo che funge da sottotesto del film. La perdita dell'innocenza, i sogni infranti, la disillusione e la malinconia sono Tornatore allo stato puro.
Nel secondo caso, invece, la componente onirica viene a galla in tutta la sua potenza metafisica. Una pura formalità è, per l’appunto, un noir onirico dal taglio psicanalitico, la cui narrazione si dipana nell'arco di una notte. L'intro è decisamente argentiano. Già dalla prima sequenza avremmo gli elementi per sciogliere il nodo cruciale della storia, prestando attenzione a un unico particolare. La vicenda si svolge interamente all'interno di un fatiscente commissariato di provincia e verte su un drammatico e teso interrogatorio tra un commissario (Roman Polanski) e il presunto assassino (Gerard Depardieu). Tornatore depista sadicamente e ripetutamente lo spettatore, fino a condurlo alla risoluzione dell'enigma in cui l'assassino e l'assassinato (Depardieu nei panni di Onoff – nome assolutamente geniale derivato dalla crasi di On e Off) coincidono con la stessa persona. Tutto avviene in uno stato di premorte, una sorta di "limbo" nel quale i personaggi si avvedono via via di alcune azioni compiute nel corso della vita terrena; e ancora, prende corpo la crisi di uno scrittore che ha smarrito l'ispirazione e l'improvviso blackout (on/off) che sancisce la memoria perduta momentaneamente dal protagonista. A questo proposito la canzone Ricordare cantata da Depardieu nei titoli di coda costituisce l'ennesimo tocco di classe di Tornatore. Anche la sceneggiatura è di altissimo livello, divenuta non a caso una pièce teatrale. Piccola curiosità: come già successo per molti film (alcuni assurti a capolavori assoluti della storia del cinema come Vertigo di Hitchcock), Una pura formalità ricevette una critica strong dalla stampa specializzata e un'accoglienza fredda da parte del pubblico. Oggi, a distanza di 26 anni, ha finalmente raccolto con gli interessi il successo che avrebbe meritato già allora.
All’inizio degli anni ’90 il regista siciliano resta letteralmente folgorato da un monologo teatrale di Alessandro Baricco intitolato Novecento e comincia a ipotizzarne una trasposizione cinematografica. Dopo una travagliata gestazione vede la luce e viene distribuito a livello mondiale il film La leggenda del pianista sull’oceano con uno strepitoso Tim Roth nei panni del primattore. Mi piace pensare a questo lungometraggio, che considero un vero capolavoro, come l’altra faccia della medaglia di Nuovo Cinema Paradiso. Mentre Salvatore Di Vita, infatti, sceglie di emigrare (fuggire?) dalla propria terra, nella convinzione che solo così potrà realizzare i propri sogni, il protagonista Novecento preferisce non tradire le sue radici, la dimensione in cui è cresciuto (la nave – metafora del grembo materno che offre protezione e sicurezza), il luogo capace di valorizzarne l’immenso talento. Novecento capisce che la grande città lo avrebbe soffocato fino a distruggerlo, annientandone la parte più intima e innocente, e sceglie di rimanere sulla nave anche quando si paventa il pericolo che possa essere fatta esplodere. Rinuncia all’amore, a una vita per gli altri considerata “normale”, a una visibilità in grande, ma sceglie di non tradire se stesso, confortato dalla sua musica, che gli ha regalato i momenti più felici dell’esistenza. La leggenda del pianista sull’oceano intesse atmosfere sognanti anche grazie alle suggestive musiche di Ennio Morricone, con il quale il regista aveva stabilito un fortunato sodalizio artistico.