En attendant l’Absurde… Ma è (di nuovo) qui
Alienazione, angoscia, solitudine, senso di crisi perenne. Uno stato di allerta intermittente, silenzioso e sordo quanto caotico e fastidioso. Una vera e propria impossibilità di ogni comunicazione che si fa ancora più concreta attraverso situazioni e dialoghi surreali, in cui squarci di quotidianità vengono distrutti e ricostruiti ad hoc, in modo che riescano a creare un effetto tanto grottesco quanto tragicomico. Un dialogo quasi assente, che si accompagna a storie totalmente prive di senso, che finiscono per demolire alla radice tutto quello che sono le convenzioni sociali, il modo di rapportarsi con gli altri e, infine, anche la stessa realtà.
Sto parlando del Teatro dell’Assurdo, quello con cui personalità come Beckett, Ionesco e tanti altri nel secondo dopoguerra hanno dato voce alla profonda alienazione, al disagio sociale e a tutti i traumi psicologici causati dal conflitto di coloro che alla guerra sono sopravvissuti... Forse avevate associato queste parole ai tempi del Covid? Potrete anche negarlo, ma so che per la maggior parte di voi ho colto nel segno. Ma parliamo un attimo meglio di questo “Assurdo”.
Il Teatro dell’Assurdo nasce, per l’appunto, nel secondo dopoguerra da una forte e sempre più pressante necessità di scardinare le regole di una delle arti più antiche del mondo in risposta al dramma umano che – imperversando ovunque ormai da decenni – era infine arrivato a un epilogo “dall’amaro in bocca”, se così si può dire. La definizione viene formulata dal critico Martin Esslin nel 1961, qualche anno dopo la comparsa di questa nuova forma teatrale – di per sé molto legata sia all’esistenzialismo di Sartre che all’arte avanguardista del surrealismo e del dadaismo – in grado di dar voce a emozioni umane che, probabilmente, sarebbero rimaste sigillate all’interno del tanto tormentato quanto perennemente in allerta animo di un essere umano reduce da una guerra piena di strascichi.
All’interno di questo bizzarro (o assurdo?) corpus di opere possiamo ritrovare testi scritti da alcuni drammaturghi – soprattutto europei – dalla seconda metà degli anni ’40 alla fine degli anni ’60, tutti caratterizzati da uno stile teatrale reso peculiare dall’abbandono di ogni sorta di razionalità e dal conseguente rifiuto di adottare un linguaggio logico-consequenziale. Anche la struttura tradizionale muta all’interno delle pièces del Teatro dell’Assurdo, dove la trama viene sostituita da un’analogica successione di eventi, legati fra loro da tracce effimere, inconsistenti, apparentemente prive di qualunque significato, come denotano, tra gli altri, anche i suoi caratteristici dialoghi senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare risate anche nei momenti più tragici della storia.
I sopraccitati Eugène Ionesco e Samuel Beckett risultano tra i principali esponenti di questo nuovo teatro tanto tragicomico quanto attinente a una realtà che, sotto la sua facciata di normalità e lo spesso velo di Maya su cui pone le basi (e che fatica a essere squarciato), nasconde profondi sensi di angoscia, di alienazione e di paura di sé, del mondo e dell’altro che, di fatto, sono lo specchio di un’epoca inquinata da una guerra che sembrava non finire mai.
Ora, io non sono un’intellettuale post-moderna o contemporanea né mi arrogo alcuna profetica intuizione, però mi permetto di porvi nuovamente la domanda iniziale: perché sensazioni come queste sembrano ancora oggi tanto familiari? A riprova che il teatro non è una “cosa vecchia”, che nei suoi corsi e ricorsi storici la vita trova ancora uno specchio in una delle arti più antiche del mondo, che i sentimenti e le emozioni raccontate sulla scena sciorinano un proprio perché nella quotidianità del mondo, ai giorni nostri l’Assurdo è di nuovo qui. E c’è tutti i giorni.
Stiamo tutti aspettando il nostro Godot, che non accenna ad arrivare ma che non smettiamo di attendere: in silenzio o urlando, dentro e fuori, vivendo sensazioni contrastanti con l’animo in subbuglio, che non sa bene né dove andare né perché. Un eterno ritorno dell’eguale – se vogliamo proprio trovarci davanti alla definizione nietzschiana e nichilista di un mondo che tanto cambia quanto resta uguale – che atterrisce, ma che, se facciamo mente locale, molti prima di noi hanno già vissuto. Un’angoscia e un’alienazione che, nella loro eco, sono quasi familiari, ma che profumano di una familiarità che ancora non sappiamo gestire, che ci spaventa e ci rende succubi di una paura verso un futuro che ancora arranca, portando al piede catene che lo legano a un passato offuscato, all’apparenza sfumato e quasi idilliaco nella memoria dei più se paragonato a un presente fatto di incertezze e continui stravolgimenti improvvisi come quello in cui stiamo vivendo. Un finale di partita che ancora ha da essere scritto, ma a cui molti non sanno come arrivare o in che condizioni.
L’Assurdo del secolo scorso discendeva da un passato di morte e terrore; l’Assurdo di oggi è arroccato su un passato sempre più confuso, che si fa presente in fretta, ma sempre mescolato a un futuro ancora fortemente indefinito, privo di contorni, dalle sfumature incerte, a volte cupe, a volte piene di una speranza che, se andiamo bene a scavare, ancora sussiste solo come guerriera, stanca ma fiduciosa che un giorno il passato di normalità che ha preceduto quello (assurdo) ben più recente possa tornare a far capolino.
Non sarà molto, ma la consolazione di una cultura che “già sa” a me ogni tanto aiuta. Lo stesso Nietzsche nell’aforisma 341 della Gaia Scienza (1882) – diversi anni prima che l’Assurdo diventasse teatro e, al contempo, si facesse concreto – si chiedeva: «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!”? Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina!”? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?”».
Questo, forse, è davvero il peso più grande: dover rivivere ab eterno, in loop, sensazioni, emozioni e sentimenti, positivi e negativi, esacerbati da un’esistenza che, a lungo andare, diventa tanto ciclica quanto all’apparenza lontana, fuori da sé. Quasi ci ritrovassimo a fissare dall’esterno la nostra vita scorrere sempre uguale, senza via d’uscita. Un’idea davvero tremenda, ma che – se ci si pensa in maniera razionale – resta di fatto solo un’idea. L’assurdo ha esorcizzato questo circolo vizioso nella seconda metà del Novecento, riproponendo sulla scena – con il fine di renderli quanto più possibile “sopportabili” – tutti i mali interiori che i tempi avversi avevano lasciato in dono a un’umanità a pezzi ma memore, si spera, di una devastazione che, fino a poco tempo prima, sarebbe sembrata fuori da ogni logica e da ogni tipo di realtà possibile. Volendo parafrasare, un po’ come sta accadendo oggi.
Non sarà la soluzione, ma forse il teatro – come l’arte in generale – questa capacità di esorcizzare il mondo esterno l’ha approfondita tanto bene nel corso dei millenni che sarebbe un vero peccato non sfruttarla anche oggi. Un’evasione consapevole, non certo la cura di tutti i mali, ma comunque un’alternativa più sana al flusso di pensieri che oggi continuano a far capolino nelle menti alienate e psicologicamente distrutte di un’umanità ancora una volta vittima di una crisi più grande di lei. Anche perché in fondo non diciamo male della nostra epoca, non è più disgraziata delle altre. E se è stato in grado di dirlo Beckett nella sua travagliata attesa per Godot, perché non dovremmo pensarlo anche noi?