Stevie Ray Vaughan, l’ultimo blues hero
Scrivere qualcosa su Stevie Ray Vaughan equivale a riaprire una ferita che non mi si è ancora rimarginata, né mai si rimarginerà. Correva l’anno 1994 quando mi recai con mio padre nel negozio di strumenti musicali più in voga allora a Palermo. Con noi era presente Nino, a quell’epoca mio insegnante di chitarra: non sapevo nulla riguardo alla sei corde elettrica e Nino mi aiutò nella scelta del primo strumento. Il blues sarebbe diventato presto il nostro argomento prediletto. Mi suggerì di acquistare, tra i tanti, alcuni cd di B.B.King e tutta la discografia di Stevie Ray Vaughan, di cui davanti allo specchio cercavo di emulare anche le movenze oltre a tirar giù i licks principali di dischi come Texas flood, Couldn’t stand the weather, In step che divennero di lì a poco il mio pane quotidiano. Mentre scrivo questo pezzo ascolto proprio Stevie e canticchio nota per nota i suoi soli a bordo di un’ideale DeLorean che mi trasporta direttamente nello scorso secolo, a Sciacca, nella mia stanzetta, con i miei cd, le mie chitarre e l’onnipresente blues.
Sono passati più di trent’anni anni dalla morte di Stevie Ray Vaughan, da quel disgraziato 27 agosto 1990. Aveva appena suonato col sangue agli occhi all’Alpine Valley Music Theater di Alpine Valley Resort, nel Wisconsin, condividendo il palco con alcuni mostri sacri della chitarra blues: Eric Clapton, Robert Cray, Buddy Guy e il fratello Jimmie. Al termine del concerto, esausto, chiese il permesso a Clapton di poter usufruire del suo elicottero per raggiungere l’albergo a Chicago. Quel volo non andò a buon fine. Pochi istanti dopo il decollo, a causa di una fitta nebbia e della ridotta esperienza del pilota, il velivolo finì per schiantarsi contro una collina. Non si salvò nessuno: oltre a Stevie persero la vita anche i membri dello staff di Clapton. Il 31 agosto venne sepolto al Memorial Park di Dallas accanto al padre, che scomparve lo stesso giorno di quattro anni prima. Fu a tutti gli effetti il tramonto della luce nel firmamento del blues. Una perdita che ancora oggi si fatica ad accettare per una buona serie di ragioni. Stevie Ray Vaughan ci ha lasciato all’età di trentacinque anni, dopo aver rivitalizzato un genere che non godeva ormai più da tempo dell’interesse dei media e del pubblico.
Ma facciamo un passo indietro. Stevie è solo un adolescente quando inizia a cibarsi di blues facendo andare avanti e indietro la puntina del giradischi per cercare di emulare lo stile dei suoi chitarristi preferiti, prendendo in prestito le chitarre del gelosissimo fratello maggiore Jimmie (anche lui chitarrista ma dallo stile diametralmente opposto). L’imprint, la cosiddetta folgorazione, avviene con l’ascolto di Jimi Hendrix che finisce letteralmente per stordirlo.
Urge fare una precisazione: non sono stati pochi i critici musicali e gli addetti ai lavori a considerare Vaughan una sorta di emulo di Hendrix. Nulla di più sbagliato. La verità è che il giovane Stevie ha iniziato molto precocemente ad assimilare lo stile dei suoi guitar heroes: non solo Hendrix, ma anche i tre King (Freddie, Albert, B.B.), Howlin’ Wolf così come Kenny Burrell (provate ad ascoltare brani come Riviera Paradise, Stang’s swang o Lenny), avvicinandosi al jazz senza quella spocchia tipica dei jazzisti puri. Sapeva infatti unire un tocco educato (Tin Pan Alley) a una grinta pazzesca nell’inerpicarsi in bending impossibili, anche per la scalatura disumana – 013 al mi cantino – di corde adoperate. Per evitare inconvenienti dell’ultima ora prima di un concerto era solito ricoprire i polpastrelli con il Super Glue, una colla usata anche dai soldati americani in Vietnam per tamponare le ferite. Il suo stile era un mix di varie modalità espressive, filtrate attraverso una grande sensibilità e umanità.
Ancora prima che morisse, Clapton aveva dichiarato: “Stevie Ray Vaughan è il miglior chitarrista che abbia mai sentito suonare”. La benedizione di Mr. Slowhand non è di certo poca cosa. È stato Clapton stesso ad aiutarlo a disintossicarsi dalla droga e a ritornare pulito: qualche mese prima, nel 1986, in pieno Live Alive Tour Stevie collassò letteralmente sul palco nel corso di una data in Germania.
In seguito a una breve interruzione per liberarsi dalle scorie delle sostanze stupefacenti, Stevie era tornato on stage per iniziare a lavorare al terzo album da studio, dopo aver pienamente ridestato l’interesse per il blues, quello più vero e viscerale, con i già citati Texas Flood (1983) e Could’t stand the weather (1984): due tra i più bei dischi della storia, che hanno sostanzialmente riscritto le regole di un genere che stentava ad evolversi. Il suo stile, infatti, è stato da sempre un ponte ideale tra classico e moderno. Vaughan si accompagnava ai Double Trouble (dal titolo di un famoso brano di Otis Rush), ovvero Tommy Shannon al basso e Chris Layton alla batteria, il classico power trio, la dimensione più complessa e al contempo affascinante per un chitarrista. Shannon scandiva le note con la precisione di un orologio svizzero, Layton gli stava dietro con uno shuffle poderoso e Stevie faceva da collante, con una ritmica implacabile e un senso della melodia stupefacente, adoperando quasi esclusivamente la scala pentatonica ma con un tiro, un groove che facevano la differenza. Vaughan, mite e schivo nella vita di tutti i giorni, sapeva trasformarsi in un animale da palcoscenico.
Soul to soul è il terzo disco in studio ed è senza dubbio un buon lavoro, contenente anche brani di qualità, ma non è di certo al livello dei primi due album. Va comunque ricordato per l’ingresso in pianta stabile di Reese Wynans alle tastiere, che tuttavia non è mai stato considerato come il terzo Double Trouble.
Nel 1989 venne dato alle stampe In Step che credo fermamente sia l’album in assoluto più completo: shuffe indiavolati, rock blues energici, gran funk (Wall of denial) e un tocco di jazz (Riviera Paradise). Vaughan aveva ormai raggiunto la piena maturità, entrando di diritto nell’iperuranio dei chitarristi. Una persona adorata da tutto lo star system, umile e fedele al verbo del blues al punto da permettersi di rifiutare di far parte di un faraonico tour col Duca Bianco David Bowie, preferendo la dimensione intima dei piccoli club.
Poco dopo la morte, la Fender introdusse il nuovo modello di Stratocaster intitolato alla memoria del chitarrista texano. Furono successivamente prodotti altri strumenti dal Custom Shop della casa americana ma in tiratura limitata, che andarono presto a ruba. Lo strumento del Custom Shop voleva essere una replica il più vicino possibile alla Number One, nota anche come First Wife: si trattava di una Stratocaster assemblata con un corpo del 1959 e un manico del 1963 che Vaughan aveva acquistato nel ‘76 presso un negozio di Austin. Lo strumento venne in seguito modificato con l’aggiunta di una mascherina nera, un paio di adesivi prismatici e un ponte mancino. Stevie nel corso della sua carriera adoperò svariate chitarre (Lenny, Charlie. Scotch, Main), molti amplificatori (Fender Super Reverb, Vibroverb, Bassman, Marshall JCM 800, Dumble) e gli inseparabili pedali Tube Screamer TS808/TS9, ma il suono rimase sempre quello, riconoscibile come pochi: acido e caldo al contempo, blues in tutto e per tutto
Non si contano i chitarristi che cercarono di imitarlo (anche nel look), riproponendone il verbo ma senza mai avvicinarsi alla sua poesia. Non sono stati pochi anche quelli di matrice prettamente rock e hard rock come Pat Travers, Rick Derringer, Gary Moore - o addirittura fusion - che iniziarono a incidere dischi smaccatamente blues con grande successo di vendita e di critica. Era la prova lampante che Stevie Ray Vaughan, con sei dischi in studio (di cui due postumi), una manciata di live e alcune eccellenti collaborazioni, aveva riportato in auge la musica del diavolo, che ancora oggi non smette di appassionare e coinvolgere.
Interno notte. Soggettiva. Un ragazzo che ha da poco varcato la fatidica soglia dei quaranta imbraccia la sua chitarra e strimpella del buon blues: non ha ancora smesso di sognare.