Siamo fatti di musica
La musica influenza da sempre le nostre vite. Studi scientifici hanno documentato come e quanto le note possano apportare benefici evidenti su persone affette da depressione o da disturbi del sonno. Innegabile come l’arte dei suoni favorisca la socializzazione, abbia la capacità di modificare in meglio l’umore, stimoli la creatività e la produzione di endorfine, cioè gli ormoni responsabili del benessere. È stato dimostrato come la musica sia in grado di allungare l’aspettativa di vita del singolo essere umano di circa una decina d’anni. Pitagora sostenne che la Luna, il Sole e gli altri pianeti del sistema solare emetterebbero una sorta di vibrazione sonora (che l’uomo non sarebbe in grado di percepire) capace di influenzare la vita sulla terra. Andando a ritroso nel tempo, non poche sono le popolazioni che hanno attribuito alla musica proprietà terapeutiche (mens sana in corpore sano, dicevano i latini).
Banalmente potremmo asserire come ognuno di noi, attraverso una sorta di playlist ideale, potrebbe collegare singoli brani musicali a specifici momenti della propria vita, che siano il primo bacio, il matrimonio, una serata da incorniciare o un compleanno indimenticabile. La portata evocativa della musica viene poi incrementata esponenzialmente dalla settima arte perché associata alle immagini, in un connubio che veicola a dismisura determinati messaggi. Anche gli sportivi traggono beneficio dalla musica mentre eseguono impegnativi esercizi fisici, migliorando la resa complessiva delle loro prestazioni. I pazienti affetti da Alzheimer o Parkinson attraverso l’ascolto di determinati brani musicali riescono a evocare ricordi che sembravano perduti irrevocabilmente. Evidenti progressi si riscontrano anche nei bambini colpiti da autismo o dislessia. Numerose sono le ricerche che dimostrano come lo sviluppo cerebrale nei ragazzini che abbiano intrapreso lo studio di uno strumento musicale sia diverso rispetto a chi non ha mai approcciato alla musica: si parla non a caso di plasticità cerebrale in base alla capacità del cervello di modificare la propria funzionalità rispetto agli stimoli sonori ricevuti.
La musica, quindi, assume un valore imprescindibile, necessario. Sottolineo volutamente il termine necessario, proprio in quest’ultimo periodo spesso usato (e abusato) in maniera impropria. In tempi di pandemia qualche mente particolarmente illuminata ha stabilito che musica, cinema, teatro e cultura in generale non sarebbero necessari. Conseguentemente interi settori dello spettacolo sono stati mandati in malora, azzerando la possibilità di aggregazione (sebbene controllata e rispettosa delle norme anti-Covid). Gente che ha fatto della musica e dello spettacolo in generale una ragione di vita si è ritrovata suo malgrado coinvolta in un disegno che, francamente, faticherei a comprendere, se non fosse che la cultura, come la sanità, sono settori dimenticati da tempo nel nostro paese. Sarebbe sicuramente più coerente se si smettesse di denominare l’Italia come “patria del bel canto” o “culla della cultura occidentale” quando quella stessa cultura viene rievocata solo quando comoda.
Questo ragionamento, molto idealista probabilmente, cadrebbe inevitabilmente come un castello di carta se pensassimo anche per un solo istante al peso che la musica ha in Italia a livello professionale. Esiste la professione del musicista? E se sì, in cosa consiste? Viene riconosciuta? Innumerevoli volte ho raccolto l’amarezza di colleghi che hanno fatto della musica un mestiere nel momento in cui veniva rivolta loro la fatidica domanda “sì, ma che lavoro fai?”. Che si tratti di musicisti classici o pop, più o meno blasonati, tale situazione in Italia si verifica con una certa frequenza e pazienza se il musicista medio si sobbarca ore e ore di prove, paga le tasse, è iscritto alla SIAE. In sostanza chi vive di musica viene visto come una sorta di hobbista, uno che esercita un capriccio, uno scansafatiche (sad but true) e non certo un professionista.
Sorge, quindi, una sorta di inspiegabile dicotomia. Se da un lato appaiono conclamate le doti terapeutiche delle note, dall’altro lato il lavoro del musicista viene fortemente maltrattato, per non dire svilito. Non aiuta ovviamente l’attuale situazione, nella quale la musica, come accennavo pocanzi, è stata completamente bistrattata. Si pensi anche a ciò che avviene, per altri motivi che fatico a comprendere, nei licei (a esclusione di quelli musicali) e, in parte, nella scuola primaria e secondaria di primo grado (le “vecchie” elementari e medie per intenderci), nelle quali ben poche ore sono rivolte allo studio della musica. Stiamo sfornando, dunque, una pletora di ragazzi priva di basi ma, soprattutto, di spirito critico, che ascoltano poca musica e per di più da canali imposti come le radio mainstream che non fanno altro che ruotare i tormentoni del momento. Mi è capitato più volte di parlare di musica nelle classi in cui insegno alle medie. La reazione agli ascolti proposti – mirati - è stata quasi sempre sconfortante: la stragrande maggioranza degli alunni già dopo pochi secondi cominciava a mostrare segni di insofferenza, liquidando il tutto con epiteti tipo è noiosa, è vecchia (il concetto di vecchiezza negli adolescenti è peraltro opinabile, dal momento che alle loro orecchie una hit diventa inevitabilmente desueta nel giro di tre mesi).
Siamo ormai entrati nella generazione Spotify, che prefigura uno scenario tetro per il musicista che voglia garantirsi da vivere con la propria arte. Che l’industria discografica sia in declino è risaputo. Lo stesso Enrico Ruggeri qualche tempo fa ebbe a dire “Mahmood guadagna meno della mia babysitter”. Provocatorio? Forse, ma dannatamente realistico. Tornando a Spotify è risaputo che gli introiti di un artista dipendono da una percentuale minimale in base al numero di ascolti dei suoi brani. Una delle poche fonti di guadagno rimaste sono i concerti, dal momento che il disco (inteso come supporto fisico) sembra definitivamente passato di moda, malgrado il ritorno di fiamma per il vinile. Allora si punta sulla pubblicazione di più singoli, dislocati alla distanza tattica di una manciata di mesi l’uno dall’altro, per mantenere desta l’attenzione sul determinato musicista/cantante/cantautore. Più che la generazione di Spotify, forse, sarebbe più corretto denominarla la generazione dei like e dei clic.
Tutto ciò non fa altro che avvalorare e confermare la comune percezione del musicista medio, più o meno blasonato. Musicista che, già di suo, è stato dimenticato dallo Stato e dal sistema che gira intorno a lui. Sappiamo tutti cosa voglia dire suonare in un locale per - se va bene - una cinquantina di euro cadauno. Prove su prove, spostamenti, consumo di carburante e last but not least improvvisarsi PR per riempire il pub tal dei tali soddisfacendone i gestori. Gran parte dei musicisti sono costretti a dover arrotondare con lezioni private, nella speranza (il più delle volte vana) di conquistare l’ambita cattedra di un Conservatorio italiano.
Ma viva l'Italia, paese dell'arte
Viva i suoi artisti tenuti in disparte
Fuori dal mondo per settimane
Schiavi del cuore e di un pezzo di pane
Viva i suoi artisti tenuti in disparte
Fuori dal mondo per settimane
Schiavi del cuore e di un pezzo di pane
Questa strofa, tratta da Vita d’Artista, brano del cantautore Sergio Cammariere di ormai vent’anni fa, penso dipinga mirabilmente la situazione attuale. La mia speranza è che l’attuale contingenza sia solo una fase passeggera e che l’arte, la musica, il teatro, il cinema possano presto tornare a farci sognare, aiutandoci a ritrovare il gusto della condivisione. Nel frattempo, continuiamo a nutrirci di musica come se non ci fosse un domani, per il nostro benessere psicofisico e per dare un senso alle nostre giornate, nonostante la sensazione - sempre viva - che un popolo privo di spirito critico e di cultura musicale (ma non solo) faccia assai comodo. Cerchiamo di riprendere le redini della nostra vita, operando affinché la musica torni al centro di tutto, riappropriandoci di quegli spazi davvero necessari.