Se il sole illumina troppo
“I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa.
Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi.
E sebbene stiano con voi, non vi appartengono”
Khalil Gibran, “Il profeta” (1923)
Pochi giorni fa mio figlio, appena rientrato da scuola, sente l’urgenza di disegnare. Si mette di buona lena alla scrivania e, nel giro di pochi minuti, sforna un eloquente ritratto raffigurante una bambola gigante dall’aspetto innocuo: semplice vestitino arancione e simpatiche treccine castane. Tutto molto tenero se non fosse che, ai fianchi della bambolona, vi sono due loschi figuri infagottati in tutoni rosso sangue, incappucciati e con in mano un mitra.
Rimango basito alla domanda: “Babbo, conosci Squid Game?“. E questo in terza elementare…
Si, conosco Squid Game. La serie sudcoreana è numero uno in Italia su Netflix, top item sui social, passaparola frenetico tra amici, vanta 111 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo nei primi diciassette giorni dall’uscita (record di sempre per una serie TV) e una marea di gadget già in commercio: magliette, felpe, tute, maschere di Halloween, pupazzetti, portachiavi. Insomma, un fenomeno che ha dell’incredibile.
Che il pericoloso appeal di Squid Game su giovani e giovanissimi sia qualcosa di non banale mi viene confermato a stretto giro di posta dalla visione di Le parole della settimana, nota trasmissione del sabato sera su Rai3. Nel suo editoriale, il conduttore Massimo Gramellini ne criticava le premesse prendendo spunto dai diversi episodi di emulazione tra adolescenti avvenuti in quei giorni in Europa, Italia compresa. In particolare, il giornalista torinese, ponendo l’attenzione sul significato simbolico del plot, lo riconduceva al macro-tema dell’emarginazione dei più deboli, dei più poveri, dei più disadattati: i reietti, quegli outcasts che, ahinoi, ritroviamo in ogni tipo di società contemporanea e che centoquarant’anni anni di Welfare State nelle società industrializzate non sono mai riusciti a eradicare.
In realtà, a mio modesto avviso, il discorso è un po' più ampio e attiene al sistema di competizione e di ricerca dell’eccellenza tipico di molte società orientali avanzate: dal Giappone alla Cina, da Singapore alla stessa Corea, da cui Squid Game, appunto, proviene. Una rigidità di disciplina, un’ansia da prestazione e una stressante competitività che i ragazzi di questi paesi respirano sin da bambini e che, inevitabilmente, li forma come cittadini e come persone. Chi non riesce a tenere certi ritmi, comportamentali e di profitto, è fuori. Tagliato via dall’accesso universitario e, con buona probabilità, da lavori ad alto reddito. L’obiettivo dichiarato, oltre a inculcare obbedienza verso i dettami che arrivano dal sistema sociale in cui si è inseriti, è quello di creare una classe dirigente, pubblica e privata, preparatissima, efficiente, educata e diligente.
Le ovvie conseguenze da stress sulla psiche di chi non arriva al traguardo di questa sorta di selezione generale possono portare a storture e deviazioni che, negli anni recenti, anche il mondo occidentale ha conosciuto, sia attraverso documentari e inchieste tv (celebre quella de Le Iene nel 2016 sugli hikikomori giapponesi), sia perché il fenomeno ormai ci coinvolge direttamente da dentro.
Ma ben prima di Gramellini è stato il fenomenale cinema d’autore coreano a raccontarci tutto questo attraverso le sue opere più illuminanti - e facendo man bassa, più che meritatamente, di premi e riconoscimenti nei più importanti festival di cinema internazionale.
Autori quali Lee Chang-dong (con il tremendo Oasis del 2002, un pugno nello stomaco come pochi altri); Kim Ki-duk (alla ribalta in occidente nel 2004 con il grandioso Ferro 3 e recentemente scomparso per Covid) e soprattutto Park Chan-wook (con, ma non solo, il suo instant classic Old Boy del 2003) ci avevano mostrato in tutta la loro efferatezza, certo estremizzata, le conseguenze sul singolo individuo di una società che non “aspetta”.
Dietro allo sviluppo tecnologico, al benessere economico, alla facciata di ordine e pulizia, si nascondono in Corea enormi sacche di povertà, periferie di brutali miserie, sociali e umane. Un disagio consistente, accompagnato da sentimenti di rivalsa, di intere fette di popolazione che un capolavoro filmico come Parasite (2019) di Bong Joon-ho ha trattato con finezza, profondità e ironia difficilmente eguagliabili.
Ma grazie alle testimonianze di alcuni connazionali che vivono a Taipei pare che la situazione di Taiwan sia persino peggiore di quella coreana: lì i bambini, già in tenerissima età, devono seguire ritmi scolastici da gulag, con sveglia all’alba, arrivo a scuola alle 7 del mattino (bisogna ripassare le lezioni…) e rientro a casa non prima di cena, dopo una serratissima giornata di attività di formazione.
Il tema, si capisce, è davvero vasto e sarebbe interessante approfondirlo ma non è questa la sede più appropriata per farlo. A noi interessa invece suggerire ai nostri lettori una straordinaria opera cinematografica che, con potente delicatezza, mette in scena le vicissitudini proprio di un’umile famiglia taiwanese e, con essa, uno spaccato di società direttamente collegato al focus di quest’articolo. Parliamo di A Sun (2019) di Chung Mong-hong, disponibile su piattaforma Netflix in lingua originale, ovviamente sottotitolato.
Seppur il titolo del film sia assolutamente centrato (soprattutto per la pronuncia di “sun” che ha una doppia, fondamentale, valenza), non rispecchia in realtà quello originale taiwanese che, tradotto in inglese, è sunshine illuminates everything (“la luce del sole illumina ogni cosa”). Senza spoilerare nulla, possiamo dirvi che il talento di Chung (anche sceneggiatore) riuscirà a ribaltare, in modo stupefacente, il significato di questa frase. Un significato in prima battuta positivo, nella sua democraticità.
Quando un giovane uomo, proprio per le dinamiche socio-famigliari di cui sopra, verrà investito continuativamente da questa “luce del sole” (lo spettatore scoprirà cosa si intenda per tale luce) gli effetti collaterali saranno inaspettati.
A Sun è quindi un monito circa i danni che noi genitori possiamo fare ai figli nel proiettare, imponendoli, desideri e aspettative del nostro Io irrealizzato.
Un avvertimento che si rinnova oggi con questo film come avvenne, quasi cent’anni fa, con Il profeta di Gibran citato in esergo. Ma non vogliamo aggiungere altro.
Fatevi un favore: guardatelo, magari dandogli precedenza rispetto a Squid Game.