Sbatti il mostro in prima pagina
Lei vede il giornalista come un osservatore imparziale. Ebbene io le dico che questi “osservatori imparziali” mi fanno pena. Bisogna essere protagonisti, non osservatori. È la Milano plumbea dei primi anni ’70 a incorniciare questo gioiello del cinema italiano di quasi cinquant’anni fa, firmato da un Marco Bellocchio già vincitore del Leone d’Argento a Venezia. Da una parte il giovanissimo e irriconoscibile Ignazio La Russa arringa davanti al Castello Sforzesco i militanti anticomunisti della Maggioranza Silenziosa, dall’altra i compagni sfilano coi pugni alzati al corteo funebre di Giangiacomo Feltrinelli. Bastano pochi minuti di filmati d’epoca, proprio all’incipit del film, per venire catapultati nell’atmosfera di quegli anni dilaniati da una rabbiosa contrapposizione sociale ormai prossima alla lotta armata. Giancarlo Bizanti (un glaciale, mastodontico e istrionico Gian Maria Volonté) è caporedattore de “Il GIORNALE”, voce di fantasia dell’establishment borghese, due anni prima che Indro Montanelli fondasse (nel 1974) l’omonima testata utilizzando curiosamente gli stessi caratteri tipografici (minuscoli invece che maiuscoli).
Il suo è un personaggio viscido e senza scrupoli, che utilizza il ruolo in modo distorto, manipolando le notizie a scopi propagandistici ed elettorali. Così quando una giovane studentessa della Milano bene viene trovata assassinata e gettata in un campo (trama che probabilmente rimanda alla contemporanea genovese Milena Sutter), Bizanti non ci pensa un attimo a sfruttare in maniera strumentale la vicenda per far incastrare un incolpevole (non illibato, ma incolpevole) militante della sinistra extraparlamentare e fare demagogia spicciola alle porte di una consultazione elettorale. Quando il vero omicida verrà scoperto, grazie all’opera di un cronista giovane e obbiettivo che non a caso verrà allontanato, la verità rimarrà occultata a discrezione del potere. Sbatti il Mostro in Prima Pagina è un film ideologico, fazioso, scomodo. Certamente fazioso, perché sottotraccia il senso è che solo una parte della società (quella conservatrice e benpensante) impasti la verità a suo piacimento, muovendosi tête-à-tête con le forze dell’ordine e le istituzioni, con al vertice della piramide un probabile finanziatore non solo del quotidiano ma anche di un’ala politica destrorsa. È un film che racconta come un caporedattore non si faccia scrupoli a sbattere la faccia di un innocente sulla prima pagina del suo giornale, rovinandone la vita, e a utilizzare la buona fede di una povera donna per raggiungere i suoi fini salvo poi entrare in chiesa con l’anima placida e atarassica (la scena finale della mondezza che sgorga lenta ma inesorabile per i canali di scolo è chiaramente allegorica). Il cinismo del potere è ben delineato, come è evidente l’attenzione per la controinformazione che nasce proprio negli anni ’70, in un’epoca in cui le fonti erano poche e troneggiavano facili. È un film anche datato, perché certe metodologie di travaso delle informazioni e di passaggio delle veline oggi fanno sorridere.
Va contestualizzato e storicizzato, ma offre spunti ugualmente attualissimi sull’utilizzo capzioso della notizia e la mistificazione della realtà per fomentare l’opinione. E se il potere non ha più il volto e i contorni precisi dell’intellighenzia medio-borghese o del perbenismo altolocato, nei tempi moderni si insinua edulcorato e mefitico tra le pieghe della coscienza e dei falsi bisogni indotti. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.