La magia della routine
Io sto bene con la mia routine, lascio a te la tua rivoluzione. Si tratta di un verso di La mia routine di Daniele Silvestri, contenuto nell’album Acrobati (2016). Mi rivedo molto in ciò che scrive il cantautore romano; d’altronde cos’è la vera routine se non un modo intelligente e pratico di pianificare le giornate, organizzarle minuziosamente per fare più cose possibili?
Eppure, la persona abitudinaria viene spesso criticata per la presunta incapacità di uscire dai propri schemi, dai binari prestabiliti, dalla classica zona di comfort. L’abitudinario non avrebbe il coraggio di rischiare, di cambiare ristorante o pizzeria, di modificare il tragitto della passeggiata pomeridiana: per non “scombussolare” l’ordine delle cose tutto deve essere incastrato esattamente come le matrioske ed essere allineato come quando completiamo il cubo di Rubik.
Essere metodici agli occhi di molti significa non avere il coraggio di provare cose nuove. In fondo, la rivoluzione di cui parla Silvestri nel suo brano è proprio questa: avere una routine significa semplicemente essere ordinati, precisi, puntuali e permette di disporre di un planning giornaliero più produttivo rispetto a una persona disorganizzata, tendenzialmente più dispersiva. Essere abitudinari, inoltre, non significa pregiudicare la componente creativa-visionaria, specie se è già insita in noi. Quante volte, tanto per fare un esempio, ci è capitato di rimanere estasiati di fronte a un tramonto sul mare che, il giorno prima, allo stesso orario, avevamo visto con sfumature diverse?
Anche se mettiamo in atto la stessa routine, ci accorgeremo sicuramente, se prestiamo attenzione, di alcuni particolari che precedentemente ci erano sfuggiti. Poterli catturare, afferrare, ci aiuta ad avere una visione a tutto tondo o, comunque, più chiara e netta dell’insieme; un libro riletto o un film rivisto più e più volte ci consentirà di afferrare sfumature e dettagli che inizialmente non avevamo colto. La stessa cosa, banalmente, avviene quando si incontra una persona per la prima volta. Molti di voi crederanno nella chimica a prima vista, della serie se non scatta qualcosa subito allora non è quello giusto. Niente di più sbagliato: ognuno di noi è dotato di mille sfaccettature che, magari per timidezza, non emergono al primo incontro ma tendono a venire fuori col tempo, ad esempio attraverso gusti e interessi in comune. Credo sia normale essere intimiditi al primo incontro o quando si ricopre un nuovo incarico lavorativo. Insomma, ogni cosa andrebbe davvero assaporata più e più volte, cercando di riprovare le sensazioni avvertite in prima battuta perché, sembra assurdo, ma è sempre una prima volta! Basta volerlo! La routine, per come la vedo io, è come il reiterarsi di tante prime volte. Alcuni dettagli si apprezzano maggiormente con la maturità.
Ecco perché sono rimasto letteralmente estasiato dall’ultimo capolavoro (non uso mezzi termini) di Wim Wenders, Perfect days. Vi è mai successo di fare ritorno a casa dopo aver visto un film in sala e sentirvi come intontiti? A me non capitava dai tempi di Carlito’s way, uno dei film cult di Brian De Palma. Il film di Wenders ci trasporta in un mood quasi magico, ipnotico, la cui lentezza (solo apparente) delle sequenze fa sì che si possa godere attimo per attimo, in una sorta di dolce e rassicurante loop, la vita di Hirayama, interpretato da un superbo Koji Jakuso.
Il film si ambienta in Giappone e narra la storia di un uomo del cui passato non conosciamo quasi nulla. Un incontro del protagonista con la sorella, all’incirca a metà pellicola, ci lascia intuire qualcosa circa il suo precedente status, di cui Hirayama, un distinto signore sulla sessantina, non sembra per nulla provare nostalgia. Egli abita in un quartiere povero della periferia di Tokio. La sua vita è scandita, come in un rituale, da piccoli gesti ripetitivi, che si reiterano giorno per giorno sempre uguali a se stessi, ma solo in apparenza, e qui sta la magia del film. Hirayama si alza alle prime luci del mattino di una Tokio che Wenders ci fa amare, complice una fotografia da Oscar.
Dopo un’attenta pulizia personale e aver innaffiato amorevolmente le piante, prende l’auto e si reca sul posto di lavoro indossando la divisa con su scritto The Tokio toilet, immergendosi nel caos della megalopoli del Sol Levante con il sorriso stampato in fronte, senza nessuno stress o affanno. L’atteggiamento del protagonista è, sin dalle prime battute, sereno. D’altronde, nonostante viva in un appartamento fatiscente, a lui non manca nulla: ha le sue letture predilette e ascolta ogni giorno la musica che lo accompagna costantemente.
Da menzionare, a questo proposito, la meravigliosa colonna sonora del film di Wenders, un susseguirsi di classici ’60-‘70 davvero notevole e in tema. Il mondo di Hirayama è quanto di più lontano da ciò che viviamo maggiormente, così presi dal fare tutto di fretta, distanti anni luce dal concetto di qui e ora. Ogni istante è centellinato, vissuto, il rispetto per le persone è ammirevole. Predilige l’ascolto della musica attraverso cassette analogiche, gelosamente conservate come per rievocare un passato che ritorna quotidianamente. I dialoghi nel film praticamente sono assenti, ma quasi non ce ne accorgiamo tanto siamo rapiti dalla routine del protagonista.
Perfect Days rappresenta la solitudine di un uomo che ha fatto pace con il passato. Il concetto di komorebi (occhio ai titoli di coda…), molto sentito in Giappone, è un termine che riguarda la luce che filtra in mezzo agli alberi, ma che ci ricorda di cercare la luce anche quando stiamo vivendo un momento della nostra esistenza fatto di ombre, quasi un’esortazione a ritrovare la via maestra in fondo al tunnel.
L’ultima sequenza è davvero emozionante. Hirayama sta tornando a casa dal lavoro, sta guidando e la musica inonda l’abitacolo: sono le note di Perfect Day di Lou Reed che invadono lo schermo. In sala nessuno osa fiatare, luci e ombre filtrano all’interno dell’auto di Hirayama mentre il suo viso, quasi una maschera, sorride impercettibilmente, poi quasi si commuove al punto di piangere per sorridere nuovamente. Hirayama è un uomo felice e non fa nulla per nasconderlo. Una lezione di vita che potremmo far nostra, se riuscissimo a dare veramente importanza ai, reiterati, solo in apparenza uguali a se stessi, piccoli gesti quotidiani.