Ritorno agli anni ‘80
Giù in strada per fortuna sono ancora tutti vivi
L’oroscopo pronostica sviluppi decisivi
Viviamo allegramente quasi l’ora delle streghe
C’è un’aria formidabile, le stelle sono accese
Correva l’anno 1983, la voglia di vivere e divertirsi era alle stelle e l’ottimismo dilagava tipo fiume in piena, come lasciava chiaramente intendere questo inciso tratto da Un Sabato Italiano di un emergente Sergio Caputo, romano di nascita ma milanese d’adozione. Una canzone che era una sorta di perfetta istantanea Polaroid di un’epoca che stiamo tremendamente rimpiangendo. Eravamo da poco usciti dai cosiddetti “anni di piombo” e avevamo una voglia matta di leggerezza.
Metamorfosi auto prescriversi dei farmaci
Per incrementare la crescita della peluria sullo stomaco
Puoi difenderti, sbattermi nel limbo degli archetipi
Farti due risate sui miei limiti, mettermi le corna terapeutiche
Gli anni ’80 sono stati il decennio dell’edonismo più smaccato. Sempre Caputo, con quello stile unico e inimitabile, letterario come il suo swing accattivante, ritraeva perfettamente in Metamorfosi la Milano da bere, espressione allora molto in voga coniata da un noto pubblicitario (Marco Mignani) che sintetizzava perfettamente lo stile di vita dei meneghini rampanti e la visione che avevano di se stessi. Venne associata al famoso Amaro Ramazzotti, la cui réclame pubblicitaria recitava testualmente: Milano, la città dell’Amaro Ramazzotti, l’amaro di chi vive e lavora (uno dei tanti luoghi comuni del milanese che s’ammazza sul posto di lavoro come nessun altro), che è nato qui e che ancora oggi porta dovunque questa Milano da vivere, da sognare, da godere. Questa Milano (pausa tattica) da bere.
Siamo all’inizio degli anni che ridiedero lustro all’economia, restituendo slancio e ottimismo agli italiani. Periodo storico protrattosi idealmente fino al ’92-’93, con l’esplosione di quella Tangentopoli che spazzò via d’emblèe parte della classe politica della Prima Repubblica e gradualmente (ma inevitabilmente) uno stile di vita da un lato vacuo e dall’altro elettrico, fatto di locali notturni, vita da paninari e corna a tutto spiano (Farti due risate sui miei limiti, mettermi le corna terapeutiche), senza smartphones e geolocalizzazione.
Gli anni d'oro del grande Real
Gli anni di Happy Days e di Ralph Malph
Gli anni delle immense compagnie
Gli anni in motorino, sempre in due
Gli anni di Happy Days e di Ralph Malph
Gli anni delle immense compagnie
Gli anni in motorino, sempre in due
Gli anni ’80 sono stati proprio questi. Gli anni di Max Pezzali (“orfano” di Maurizio Repetto) sono l’inno generazionale per eccellenza. Li ho vissuti anche io da adolescente e li ricordo con dolcezza mista a malcelata malinconia. Eravamo appena standardizzati nei nostri outfit - io un po' meno, stavo già conseguendo la patente da nerd di cui tuttora vado fiero. Se indossavi una felpa Best Company, American System, oppure ‘O Neal eri quasi condannato a portare le calze dello stesso colore, nel classico abbinamento “imposto”. C’era un’evidente superficialità di fondo, perché si puntava quasi tutto sull’immagine, sull’apparire piuttosto che sull’essere. All’ingenuità tipica della giovinezza si abbinava uno stile di vita molto diverso rispetto a quello degli adolescenti odierni tutti social e smartphones, tanto anelanti ai like sui profili social quanto disillusi dalla vita reale.
Noi adolescenti degli anni ’80 eravamo sicuramente più creativi, immaginavamo un futuro incerto ma senza problemi. Non possedevamo Facebook e non avevamo le benché minima idea di cosa fosse Internet. A cavallo tra l’87 e l’88 andai un pomeriggio a casa del mio migliore amico: eravamo rimasti d’accordo che dopo aver fatto i compiti ci sarebbe stata una sorpresa. Gerardo accese il PC del babbo (praticamente un frigorifero) e con entusiasmo esclamò “adesso ci colleghiamo ad Internet”, cogliendomi di sorpresa, perché fino a quel momento il PC per me era sinonimo esclusivo di Commodore 64, joystick, giochi. Bei tempi. Da quel giorno e per ancora qualche anno non seppi più nulla di quel mostro virtuale.
Allora, gli anni Ottanta sono ormai finiti
Sono stati noiosi come i loro miti
Di una cosa sola noi non siamo stanchi
Di una buona chitarra, una chitarra funky
Sono stati noiosi come i loro miti
Di una cosa sola noi non siamo stanchi
Di una buona chitarra, una chitarra funky
In Voglia di gridare un cantautore prolifico e impegnato come Daniele Silvestri riveste di un’accezione non positiva gli anni ’80, con tutti i loro miti ritenuti noiosi, rivendicando la naturalezza e la freschezza di una chitarra funky in una decade nella quale facevano la voce grossa le batterie elettroniche, i rack e i sintetizzatori (anche nell’hard rock con i Van Halen, ad esempio). La musica e la sua fruizione erano profondamente cambiate: MTV e i videoclip divennero il veicolo di diffusione principale. Ma fu anche il decennio della new wave inglese, ci fu il ritorno in pompa magna dei mitici Pink Floyd, gli U2, i già citati Van Halen, il boom dell’heavy metal… Fino a quando, sul finire del decennio, fummo travolti da un caterpillar denominato grunge, con band come Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains e Pearl Jam che fecero saltare il banco.
Eravamo davvero più fantasiosi, altruisti, creativi e io, già allora, andavo avanti a pane e film. Il piccolo cinema di paese (all’epoca le multisale non esistevano), gli amici storici, i popcorn, il buio che avvolgeva tutto: l’incanto iniziava così. C’era una dimensione più intima e i nostri classici si chiamavano La Storia Infinita, E.T., Ritorno al Futuro (che ancora oggi rivedo volentieri, con gli occhi dell’uomo del terzo millennio ma il cuore di quel ragazzo). Di contro erano davvero poche le pellicole italiane degne di nota. Il depauperamento della cultura era già evidente dai palinsesti delle prime TV private con programmi tipo Drive In, nei quali la donna veniva rappresentata come puro oggetto del desiderio tutta risolini e paillettes. La monotonia regnava sovrana, le proposte sembravano confezionate con lo stampino. Adesso la pubblicità di Claudio Baglioni (edita nel 1985) descrive mirabilmente quel senso latente di staticità culturale che si respirava nelle case italiane e l’incombere della pubblicità che, solo in apparenza, pareva spezzare la routine. Emblematico che il primo verso della canzone (Tu dietro un vetro guardi fuori) sia anche l’ultimo, a conferma del senso di ciclicità tratteggiato da un brano cadenzato e sempre volutamente uguale a se stesso.
Tua madre altezza media sogni medi
Che sbatte gli occhi da cammello
E non si è rassegnata e neanche spera
Tuo padre mani da operaio a vita
Che ride e gli si spacca il viso
Che sbatte gli occhi da cammello
E non si è rassegnata e neanche spera
Tuo padre mani da operaio a vita
Che ride e gli si spacca il viso
Impallidito di TV
Tu fretta di vivere qualcosa
E ogni cosa è già un ricordo liso
E adesso la pubblicità.
Tu fretta di vivere qualcosa
E ogni cosa è già un ricordo liso
E adesso la pubblicità.
In un panorama così desolante, una trasmissione televisiva come Indietro tutta! rappresentò invece il classico punto di rottura, una novità assoluta, una ventata d’aria fresca, tanto da venire considerata presto una vera pietra miliare nella storia della TV italiana. L’idea della televisione che prendeva in giro se stessa - e se indovini, quante emozioni, perché è col quiz che ci danno i milioni evviva le televisioni! - fu sovversiva. Una baraonda di colori, personaggi divertenti, strampalati e un sense of humor esilarante: c’erano le ragazze coccodè che parodiavano le soubrette sculettanti delle TV private, mentre il cacao meravigliao irrideva gli italiani al punto da spingerli ad andarlo a cercare sugli scaffali dei supermercati perché convinti della sua esistenza!
Quanti di noi, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, si lascerebbero tentare dall’idea di fare un salto a piè pari negli anni ’80? Io un giro, anche fugace, me lo farei. Vorrei riassaporare l’ebbrezza di uscire di casa senza avere tra le mani uno smartphone, circolare su un ciclomotore “truccato” rigorosamente in due e senza casco, mi fionderei all’interno di una gelida cabina telefonica inserendo tutti i gettoni a disposizione per fare una sorpresa a qualcuno, riguarderei Il mio amico Arnold con mia cugina per ridere come matti, tornerei a giocare le partite di calcio all’interno della villa comunale con i tronchi d’albero a fare da pali della porta. Manca proprio quella leggerezza, quei comportamenti meno standardizzati e più naturali. O forse sono io a essere solo uno stupido sognatore: la vecchiaia, si sa, spesso si diverte a giocare brutti scherzi.