Quei giovani ribelli quasi ottantenni - InEsergo

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27 Maggio 2021 - Musica

Il tramonto della canzone di protesta nell’era della “nuova normalità”
  
Quei giovani ribelli quasi ottantenni
 
“La musica leggera e tutta la musica destinata al consumo [...] sembra che sia direttamente complementare all'ammutolirsi dell'uomo, all'estinguersi del linguaggio inteso come espressione, all'incapacità di comunicazione. Essa alberga nelle brecce del silenzio che si aprono tra gli uomini deformati dall'ansia, dalla routine e dalla cieca obbedienza [...] Questa musica viene percepita solo come uno sfondo sonoro: se nessuno più è in grado di parlare realmente, nessuno è nemmeno più in grado di ascoltare [...] la potenza del banale si è estesa sulla società nel suo insieme”.
Theodor W. Adorno, “Il carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto”, 1938

Così si esprimeva il filosofo, musicologo e sociologo Theodor W. Adorno all’alba della Seconda guerra mondiale. Anche se in quel periodo la canzonetta era davvero standardizzata e banale e il jazz offriva una produzione di serie, edulcorata, è difficile fugare l'impressione che Adorno abbia condannato la popular music tout court, senza distinzioni. Dovevano ancora sopraggiungere gli anni in cui la musica di consumo avrebbe assunto una forma socialmente impegnata, al punto da essere elevata, a posteriori, a strumento di indagine della realtà.

Decise avvisaglie della valenza comunicativa della musica le abbiamo sul finire degli anni ‘50 negli Stati Uniti, in un’America dove vigono ancora leggi che discriminano duramente i neri, che negano loro i più elementari diritti civili e si sviluppa un ampio movimento di protesta di cui Martin Luther King rappresenta solo la punta dell’iceberg. Alcuni musicisti jazz di quel periodo si fanno portatori di un messaggio che induce a una riflessione sociologica. Nel 1960 il batterista Max Roach incide Freedom Now Suite, contributo alla lotta di liberazione del popolo afroamericano. Nel 1965 Archie Sheep, noto per le sue posizioni afrocentriche, registra Malcolm, Malcolm Semper Malcolm, che inizia con la recitazione di una poesia dedicata al grande leader nero Malcolm X. Nel 1959 Charles Mingus scrive il pezzo Fables Of Faubus (una delle sue più importanti composizioni) per inserirlo nell'album Mingus Ah Um, ma l’etichetta discografica Columbia ne rifiuta la versione comprensiva del testo che ridicolizza il governatore segregazionista dell'Arkansas Orval Faubus, oppostosi alla storica decisione della Suprema Corte di integrare gli studenti afroamericani nelle scuole pubbliche. Il braccio di ferro con il governo federale e il dipartimento di giustizia si concluse con la sconfitta di Faubus e dei suprematisti bianchi e il 24 settembre il presidente Eisenhower mandò dei soldati a scortare gli alunni di colore che vennero finalmente ammessi in classe alle lezioni.

Ma è il cantautorato che negli anni ’60 diviene la principale forma di protesta: in Masters of War di Bob Dylan del 1963 troviamo una delle più dure condanne al militarismo e all’industria bellica mai espresse in musica: "tutti i soldi che avete guadagnato non vi basteranno per ricomprarvi l'anima”. Il brano si erge a inno dei pacifisti all’epoca del conflitto in Vietnam. Stesso destino per Ohio scritta da Neil Young nel 1970 e incisa dal quartetto Crosby, Stills, Nash & Young che racconta gli avvenimenti del 4 maggio 1970, quando la Guardia Nazionale sparò sugli studenti che manifestavano contro l’invasione della Cambogia decisa da Nixon uccidendone quattro, tra cui due giovani ragazze: “... quest'estate sento i tamburi che battono / quattro morti in Ohio / dobbiamo occuparcene / i soldati ci stanno uccidendo a fucilate / bisognava farlo già da tempo / che diresti se la conoscessi / e la trovassi morta per terra? / come reagirai quando lo saprai?".

I Pink Floyd nel 1977 pubblicano l’album Animals ispirandosi al libro La Fattoria degli Animali di George Orwell. Tre animali, tre tipologie di individui: Dogs (cani), Pigs (porci), Sheep (pecore). I cani sono i detentori della legge e, più in generale, gli arrivisti: quelli disposti a tutto pur di emergere, descritti da Roger Waters come persone malate, condannate a morire del loro male, trascinate giù dalla pietra delle colpe di cui si sono macchiate. I maiali sono i potenti, i politici: ne esistono tre differenti tipi, come recita il sottotitolo. Nella prima strofa probabilmente Waters allude all’allora Primo Ministro James Callaghan, nella seconda strofa pensa a Margaret Thatcher e nella terza c’è un’allusione esplicita a Mary Whitehouse, che in quel periodo voleva vietare le canzoni dei Pink Floyd alla radio perché ritenute peccaminose e diseducative. Le pecore sono il popolo, cioè noi, sempre troppo docili e anzi paghi di obbedire a cani e maiali. Nel finale del brano le pecore si ribellano e uccidono i cani ma non ottengono la libertà: è nella natura delle pecore, del popolo, farsi sottomettere. Così alcune pecore più furbe si sostituiscono ai cani, reiterando le ingiustizie e intimando alle pecore servili di obbedire.

Margareth Thatcher all’epoca è ben poco amata dagli artisti. Il gruppo inglese degli Style Council si fa portavoce della classe operaia contro le politiche della lady di ferro che prevedevano tagli alla spesa pubblica, privatizzazione di aziende statali, indebolimento del welfare state e un grosso aumento della disoccupazione. Nel 1988 Patty Smith incide People Have The Power e canta: “…mi svegliai al grido / che il popolo ha il potere / di redimere l’opera dei pazzi / fino alla mitezza, alla pioggia della grazia / è stabilito, è il popolo che hai il potere”. Sono versi che ci donano una visione diametralmente opposta al pessimismo orwelliano rivisitato da Roger Waters. Patty Smith dice che possiamo farcela, che abbiamo il potere, noi, il popolo. Circa dieci anni prima, nel 1976, il nostro Eugenio Finardi così si esprime in Musica Ribelle contenuta nel secondo disco Sugo: “...ma da qualche tempo è difficile scappare / c'è qualcosa nell'aria che non si può ignorare / è dolce, ma forte e non ti molla mai / è un'onda che cresce e ti segue ovunque vai / è la musica, la musica ribelle / che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle / che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare / di mollare le menate e di metterti a lottare”.

Sul potere e le responsabilità che ha il popolo Fabrizio De André nel 1973 in Canzone del maggio così sentenzia: “per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”. Il testo ricorda i fatti del maggio francese del 1968 e si rivolge a quelli che alla lotta non hanno partecipato, ricordando loro che tutti (anche chi si era chiuso in casa per la paura) sono stati ugualmente coinvolti negli avvenimenti. Tra le composizioni più amate e note degli Area c’è Gioia e Rivoluzione del 1975, nella quale si cerca di spiegare che la vera rivoluzione deve passare, prima di tutto, attraverso le arti: “…il mio mitra è un contrabbasso /che ti spara sulla faccia / che ti spara sulla faccia / ciò che penso della vita / con il suono delle dita / si combatte una battaglia / che ci porta sulle strade / della gente che sa amare”. Un invito a considerare che anche il pennello di un pittore, la penna di uno scrittore, lo scatto di un fotografo o il pezzo illuminante di un giornalista libero potrebbero essere armi da utilizzare per costruire un mondo migliore.

Il comune denominatore degli artisti citati passa senza dubbio per una revisione critica della società borghese nella deriva del capitalismo monopolistico, che conduce a un mondo di relazioni umane fondate sulla pura apparenza, in cui la sfera individuale si riduce all’ambito fittizio del consumo. Appare evidente come in questo particolare momento storico la canzone di protesta si sia praticamente assopita, relegata a un passato di contestazione e di messa in discussione del pensiero comune. Parliamo solamente di qualche decennio fa ma, alla luce di questi giorni in cui si insinua una nuova normalità per il genere umano, sembra passato più di un secolo. Una nuova normalità in cui è cambiata anche la forma della protesta in musica, trasformata spesso in una specie di propaganda del politicamente corretto per il tramite di personaggi che ben poco hanno di rivoluzionario e trasgressivo - come abbiamo recentemente visto sul palco del Primo Maggio a Roma - se non appunto in apparenza.

L’unico brivido qualche mese fa, a dicembre del 2020, quando una rockstar inglese e un cantautore nordirlandese, ambedue sulla soglia degli ottant’anni, hanno proposto Stand and Deliver: un semplice brano rock-blues con un testo che esprime dichiaratamente una posizione contraria alle misure restrittive imposte dal governo britannico con il lockdown. Parliamo della voce e della chitarra di Eric Clapton che interpreta il testo di Van Morrison. Una collaborazione a cui la stampa mondiale ha dato pochissimo risalto: forse un testo scomodo? Lo scopriremo. Forse. Come dichiarato proprio da Van Morrison in una intervista al The Times, noto giornale londinese, “se non c’è niente che puoi dire, allora potrebbe non esserci più niente che tu possa fare”.

Tornano di attualità le parole di Adorno, nel 1938 come oggi. Dopo Clapton/Morrison attendiamo le novità discografiche della coppia Richards/Jagger.


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