Povera patria
Particolare di "La voix du sang" di René Magritte
Quale domani per l’Italia?
«Per l’Italia nessuno. Perché un paese che ignora il proprio ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di non sapere nulla non può avere un domani. Se mi chiedi che cosa sarà il domani per gli italiani, forse sarà un domani brillantissimo; per gli italiani, non per l’Italia.
Ricordo una definizione dell’Italia che mi dette un mio maestro e benefattore, il grande giornalista Ugo Ojetti: “Ma non hai ancora capito? L’Italia è un paese di contemporanei, senza antenati né posteri, perché senza memoria”.
Allora avevo 25/26 anni e la presi per una boutade, un paradosso. Ma presto mi accorsi che aveva ragione»
Così parlò Indro Montanelli in una puntata dell’edizione video dell’opera La storia d’Italia di Indro Montanelli, condotta dal giornalista Mario Cervi. Erano gli anni Novanta, eppure (e aggiungerei purtroppo) il senso di queste parole resta più che mai attuale. Ma, prima di entrare nel merito della questione, sarebbe meglio fare un passo indietro e cercare di dare una definizione di ciò che si intende per Stato e Nazione.
Lo Stato moderno nasce intorno alla metà del XVII secolo, precisamente con la pace di Vestfalia del 1648 e il trattato dei Pirenei del 1659 che sancirono la fine della Guerra dei trent’anni, un lungo e sanguinoso conflitto che coinvolse la Francia e la Spagna. I trattati permisero la creazione di un quadro geopolitico comprendente buona parte dell’Europa e basato sulla compresenza di autorità sovrane e indipendenti, fatta eccezione per l’Italia e la Germania che invece dovranno attendere il XIX secolo per imporsi sul panorama politico europeo. Gli effetti di questo assetto furono tangibili sul piano politico, militare ed economico: si introduce il diritto interstatale, ovvero a ogni Stato viene attribuita la libertà di esercitare la propria sovranità sul territorio, cresce l’esigenza di disporre di unità militari compatte utili a garantire la difesa dei confini e, per la prima volta nella storia, vengono negate le interferenze negli affari interni degli altri paesi. A questo poi va aggiunta l’emergente rivalità commerciale fra gli Stati, determinata dalla scelta di strategie economiche e di mezzi di controllo tali da garantire la sovranità di ciascun paese, destinato a essere luogo di accumulazione della ricchezza.
Il concetto di Nazione invece emergerà soltanto nel corso del XVIII e del XIX secolo, configurandosi come un’adesione della collettività a una prospettiva amministrativa e politica unitaria. Le Rivoluzioni francese e americana hanno sicuramente contribuito al radicamento di questo senso patrio e del desiderio di porre al di sopra delle divisioni interne un ideale comune. L’Italia invece risulta essere un caso a sé; nel 1861 si è dato inizio a un processo di unificazione che, purtroppo, si può dire sia stato realizzato solo formalmente: l’unità sostanziale manca tuttora. Il nostro è un paese cresciuto a velocità alterne, a causa dell’eterno divario tra il Nord e il Sud: un fenomeno purtroppo ancora attuale che ha determinato disparità economiche, scontri, pregiudizi culturali e un progressivo aumento della migrazione all’estero con la conseguente assimilazione delle seconde generazioni da parte dei paesi ospitanti. Risultato? Disunione.
L’avvento del fascismo ha ulteriormente complicato le cose in tal senso, in quanto il concetto di unità è stato manipolato e distorto al fine di accentrare il potere in un singolo organo che si è arrogato il diritto di esercitare il dominio assoluto sugli individui. Il fascismo è riuscito a far coincidere l’adesione al regime con il senso di appartenenza allo Stato: nulla di più sbagliato e divisivo. Eppure, ancora oggi il nostalgismo delle destre radicali tende a diventare una realtà sempre più concreta.
L’Italia è un paese dall’identità ancora ignota e apparentemente senza futuro perché negli italiani è radicata una mentalità profondamente individualistica, che ignora il proprio passato e che guarda al contesto in maniera scettica e disillusa. Sulla base di tali riflessioni, nulla ci vieta di ricondurre questo ritratto del paese al modello della Politica dello scetticismo, descritto e approfondito dal filosofo contemporaneo inglese Michael Oakeshott nel suo saggio The Politics of Faith and the Politics of Skepticism. L’autore individua i due paradigmi a cui l’azione politica ha fatto riferimento nel corso della storia: la politica della fede e la politica dello scetticismo.
Se nella politica della fede, che si trova in opposizione a ogni tipo di esperienza religiosa, vige l’idea secondo cui l’obiettivo della politica, e quindi del governo, sia quello di raggiungere la perfettibilità umana e garantire la salvezza alla comunità, al contrario, nella politica dello scetticismo, si manifesta una certa diffidenza verso l’attività di governo, che, non potendo procedere con intenti salvifici, deve altresì essere utile ad attenuare il conflitto tra interessi e desideri contrastanti, presenti all’interno di ogni società. Lo scettico di Oakeshott sostiene ciò che si definisce un governo minimo: ossia un ordine amministrativo che si limita ad accogliere e ad attuare ciò che già pre-esiste nella società, ignorando cosa possa determinare un vero e proprio cambiamento. Tutto questo si traduce in un immobilismo politico economico e sociale che è possibile rintracciare nella storia italiana degli ultimi trent’anni.
La rivendicazione dell’individualità nello stato moderno è fondamentale, ma è altrettanto necessaria la salvaguardia degli ideali utili a garantire il benessere della collettività poiché ciò che determina l’identità e la forza di una Nazione è proprio l’unità. E la sfida a cui questa pandemia ci sta sottoponendo potrebbe finalmente risvegliare la coscienza collettiva in tal senso. Potrebbe.
Chissà se, osservando il dibattito politico e sociale di oggi, Montanelli avrebbe dato la stessa risposta. Credo di no. Spero di no. Voglio poter credere che un futuro questo paese ce l’abbia. Dipende da noi, dalla nostra memoria.