La solitudine di Pompei
Marco Porcio e Gaio Quinzio Valgo sono stati due magistrati dell'antica città di Pompei. Furono gli ideatori dello stupendo anfiteatro eretto intorno al 70 a.C., tuttora ammirabile nella sua magnificenza nell’omonimo sito archeologico. Cosa avrebbero pensato se avessero visto, catapultati nell'ottobre 1971 con un ipotetico viaggio nel tempo, quattro musicisti inglesi armati di chitarre elettriche e potenti amplificatori tenere una surreale rappresentazione musicale senza l'obbligo di dover compiacere un pubblico fisicamente presente, in un luogo creato per ospitare una folla desiderosa di assistere a combattimenti tra gladiatori e giochi circensi?
Tra il 4 e il 6 ottobre del 1971 i Pink Floyd, da un'idea del regista Adrian Maben, fissano su nastro il primo concerto privo di un pubblico reale, destinato esclusivamente alle sale cinematografiche. La polvere che fa da pavimento all'anfiteatro è solcata dai binari che trasportano le pesanti telecamere, null'altro si intravede se non i cavi, la regia audio, lo sparuto gruppo di tecnici, cameraman e assistenti, oltre ai musicisti. Un paesaggio arido, desertico. Pietre secolari custodiscono un silenzio cristallizzato da quasi due millenni. Alzando gli occhi al cielo incombe il Vesuvio, diventato nel nostro immaginario, dopo l'eruzione del 79 d.C., uno dei simboli più significativi, con la sua energia devastante, della caducità della vita umana, dell'impotenza dell'uomo di fronte a madre natura. In questo paesaggio tornano alla memoria le immagini della Death Valley, immortalata pochi anni prima da Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point, a cui i Pink Floyd contribuirono con parte della colonna sonora.
La prima volta che vidi Live at Pompeii rimasi interdetto: nell'era di MTV, dei concerti divenuti mega raduni con folle oceaniche di pubblico, dei videoclip con sceneggiature degne del "Red Carpet", l'essenzialità e la rarefazione (scarnificazione) del contenuto visivo, la semplicità delle inquadrature mi rendevano faticosa, non entusiasmante, la visione di quell'ora e mezza di pellicola. Nel corso degli anni, cosciente che le opere d'arte di spessore richiedono in genere una lenta digestione, ho rivisto più volte la vecchia cassetta VHS: l'urlo di Roger Waters in Careful With That Axe Eugene è diventato il grido di dolore della popolazione pompeiana durante l'eruzione; dalle dissonanze in A Saucerful Of Secrets è emerso il senso di una distruttività inarrestabile, pronta a trasformarsi in una surreale quiete nelle note di Set The Controls For The Heart Of The Sun e, infine, in una pacata malinconia post distruzione, evocata dal suono della lirica chitarra che chiude la seconda parte di Echoes.
Le immagini di David Gilmour a torso nudo, vestito solo del suo strumento, in uno scenario composto da muri di amplificatori e antichi ruderi, ci trasmettono una sincerità espressiva e una sostanza del contenuto musicale molto simili a quelle di una rappresentazione artistica della civiltà classica. Il mondo dei primi anni '70 non esiste più, ma in quella scena è conservata la scultura di un tempo che abbiamo perso, un tempo di libertà, freschezza, sperimentazione e anche di leggerezza che varrebbe la pena riscoprire, per diffondere nuovamente quei valori, quelle idee, quella creatività proprie dell'espressione artistica.
Possiamo chiederci come cambia l'opera d'arte nel momento unico in cui la percepiamo. In questo periodo storico quegli spazi vuoti, l'assenza di pubblico nel teatro pompeiano, non possono che portare alla mente l'atmosfera dei concerti tenuti in qualche studio televisivo, dominati dalla logica dell'isolamento, della distanza sociale, della paura dell'altro, del confinamento psicotico. E come possiamo assaporare lo spirito di leggerezza, di sperimentazione, di pura manifestazione artistica nel clima che stiamo vivendo, un clima assimilabile a quello restituito dalle opere di George Orwell e Aldous Huxley?
Viviamo un tempo denudato dell'entusiasmo e dell'energia vitale, ridotto a lancette di un orologio che scorrono senza espressione; non possiamo fare altro che sperare che questo mondo, figlio di una certa narrativa distopica del Novecento, sia restituito quanto prima alle pagine dei libri e si torni a vivere con gioia, liberi dal condizionamento angosciante dell'attuale informazione terroristica, nella spensieratezza di cui ha diritto ogni essere umano.