Come un perfetto sconosciuto

Ora Ofelia è sotto la finestra
Sono molto preoccupato per lei
Al suo ventiduesimo compleanno
È già una vecchia zitella
La morte le sembra abbastanza romantica
Indossa una maglia d'acciaio
La professione è la sua religione
Il suo peccato è la mancanza di vita
E sebbene tenga gli occhi fissi
Sul grande arcobaleno di Noè
Passa il suo tempo a sbirciare
In vico della desolazione
Bob Dylan, "Desolation Row"
James Mangold ha colpito. Nuovamente. Non che ci sia da stupirsi: il corpulento regista statunitense torreggia tra i colleghi della sua generazione. Vent’anni fa diresse Walk The Line, biopic sui tormentati primi anni di Johnny Cash e June Carter, amore furibondo e droga a fiumi. In quel film, senza nulla togliere all’eccelsa Reese Witherspoon (che vinse l’Oscar come miglior attrice), Joaquin Phoenix si spinse agli apogei con un’interpretazione dell’Uomo in Nero da slogatura mandibolare. Vent’anni dopo è l’affettato Timothée Chalamet a montare in serpa e condurre lo spettatore nei gorghi di Sua Bobbità Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan.
A Complete Unknown è una colata di emozioni all’americana, una mescolanza di lacrime e fascino. Merito della sceneggiatura, certamente, della regia, of course, ma soprattutto dell’eccelso protagonista che richiama il Bardo di Duluth fin dallo sguardo, con quegli occhi fendenti, le palpebre stanche, la prossemica, la mimica; in primis, sviscerandone l’anima cantando e suonando lui stesso le canzoni che tra 1961 e 1965 musicarono l’epopea di un mondo in rivoluzione. C’è una battaglia fuori e sta infuriando, presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri, perché i tempi stanno cambiando canta Dylan in The Times They Are A Changin’ e nell’interpretazione di Chalamet sono brividi che scivolano lungo le reni.
Il racconto di A Complete Unknown si basa sulla biografia Dylan Goes Electric! del giornalista, chitarrista e storico Elijah Wald: i temi sono la svolta elettrica del futuro Premio Nobel, la genesi del capolavoro Higway 61 Revisited e l’approdo al Folk Festival di Newport del luglio 1965, dove, si dice, scoppiò il pandemonio. C’è tanto, tantissimo, abbastanza da prendersi otto candidature agli Oscar e invitare la Generazione Z a ripulirsi per bene le orecchie. Appena due anni prima, nel 1963, Dylan smunto e ciancicato signoreggiava il tabernacolo dell’impegno e della canzone di protesta con armonica a bocca e mise da operaio, mitragliando immortalità come se il mondo stesse per implodere. Sono stato di fronte ad una dozzina di oceani morti, sono stato per diecimila miglia nella bocca di un cimitero, e una dura, una dura pioggia cadrà.
Ma nell’estate di due anni dopo, Dylan avrebbe compiuto la prima trasformazione, il primo omicidio del suo mito, refrain che ripeterà con periodica costanza fino ai giorni nostri. Voglio essere tutto ciò che loro non vogliono che io sia. Giacca di pelle nera, camicia abbottonata fino al collo, jeans attillati e stivali a punta alle spalle di una Stratocaster Sunburst a due colori, pronto a vomitare sulla folla tonnellate di elettricità con il conforto di un improvvisato ensemble di bluesmen provenienti da Chicago e il lanciafiamme a sei corde di Mike Bloomfield. Ho la testa piena di idee che mi stanno facendo impazzire, è una vergogna il modo in cui lei mi fa lustrare il pavimento. Non lavorerò più alla fattoria di Maggie.
Il ventiquattrenne di Duluth è in piedi, sfida il pubblico, ha un’aria sfrontata e strafottente. Si prende salve di fischi ma anche qualche applauso mentre tutt’intorno esplode il caos. Il film di Mangold conduce lo spettatore sulla macchina del tempo, pur con qualche licenza narrativa approvata dallo stesso Dylan, e riporta sul grande schermo le fiamme pure di un grande fuoco, il disordine di un genio.
I tizzoni in quel tempo divampavano ovunque. Proprio nei giorni di Newport, Jim Morrison e Ray Manzarek fondavano i Doors passeggiando su Venice Beach, i Beatles stavano per svoltare e avrebbero sconvolto il mondo, mentre Brian Wilson sfidava i suoi stessi compagni di viaggio con l’inaudito capolavoro Pet Sounds. Tieni il naso pulito, attento ai vestiti comuni, non ti serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento canta apocalittico Bob Dylan in Subterranean Homesick Blues e fortunatamente A Complete Unknown non ce lo restituisce con l’effigie del santino, perché i disturbatori non amano l’agiografia.
Si esce dal cinema con un senso di prurito, una forma di orticaria intellettuale che pulsa dal cervello all’anima. Spiegatemi cos’è rimasto di realmente scompigliante, a quale artista o intellettuale affidereste il compito di indicarvi la strada. Il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, rammentava Pier Paolo Pasolini. I giovani sono diventati obsoleti, lo scrissi anche qui. I falsi rivoluzionari, loschi serpenti che di velenoso non hanno più nemmeno l’aspetto, hanno superato il limite. Soporiferi, prevedibili, carne da macello per un quarto d’ora di tritacarne massmediatico, ingranaggi di una megamacchina che macina pure se stessa, emanazione di un’ideologia che aspira a essere onnipervasiva.
Il nuovo fascismo ha come fine la riorganizzazione e l'omologazione brutalmente totalitaria del mondo, per citare ancora un Pasolini d’annata, di cinquant’anni fa. E non si racconti in giro che le voci contro non ci sono, che gli intellettuali non nascono più, che non c’è bella musica in giro. Sono menzogne. Ma resta l’impressione dei due minuti di odio orwelliani, di stare all’angolo di un pugile incapace di fare male. Suonala per il Reverendo, suonala per il Pastore, suonala per il cane che non ha padrone. A Newport il pubblico andava per essere rincuorato, ritrovarsi tra amici, in comunione di fede. Bob Dylan ci andò per far saltare tutto, intercettare l’aria nuova, lasciare fango sul tappeto (come lo sobillava per iscritto Johnny Cash). Sogno ancora artisti autenticamente perturbanti, al servizio, liberi dal battimano su commissione. Sogno uditori che chiedano di più, molto di più. In caso contrario sarebbe molto meglio svicolare, come perfetti sconosciuti, come una pietra che rotola.