Patriarcato 2.0 - InEsergo

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15 Gennaio 2024 - Attualità

Di tutta l'erba un fascio?
 
Patriarcato 2.0
 
La sera dell’11 novembre del 2023 due giovani poco più che ventenni scompaiono nel nulla: stiamo parlando di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta. Prontamente iniziano le ricerche e il clamore mediatico intorno alla vicenda cresce ora dopo ora. Esattamente una settimana dopo la scomparsa, ovvero il 18 novembre, viene ritrovato il corpo di una ragazza ricoperto da alcuni sacchi neri in una scarpata impervia nella zona del Lago di Barcis: si tratta, ahimè, di Giulia. Un attento esame del corpo rivelerà il macabro accanimento del carnefice (Filippo Turetta, reo confesso e indagato per omicidio colposo aggravato) sulla povera vittima. Il resto è cronaca.

Scoppia un fragore mediatico senza precedenti che vede al centro la famiglia Cecchettin (nonna compresa), intervistata a più riprese dalle principali reti televisive. Gli stessi funerali della vittima vengono trasmessi in diretta a livello nazionale (a memoria non ricordo sia mai successa una cosa simile nel passato) e i commenti dei politici, opinionisti, influencer (pure loro…), gente comune, si sprecano. Ma è il discorso della sorella Elena (nominata incredibilmente donna dell’anno da una rivista come l’Espresso) a destare più clamore, un discorso accorato ma altamente divisivo, non gradito da molti (me compreso). Riporto i principali stralci: «credo fermamente che gli uomini debbano fare un mea culpa. Io sono sicura che nella vostra vita ci sia stato almeno un episodio in cui avete mancato di rispetto a una donna, in quanto donna. Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. Il femminicidio è un omicidio di Stato perché lo stato non ci tutela, non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere».

Non mi meraviglia il modo in cui i media si siano letteralmente fiondati sulla famiglia della malcapitata: questa, sì, è tipica cultura italiana, una cultura dove interessano maggiormente il click, il like, le visualizzazioni, lo share, il pianto facile (come nei saloni della D’Urso nazionale). Tutto il resto (Giulia nella fattispecie) è contorno. Trovo abbastanza strano, per usare un eufemismo, che queste dichiarazioni siano state mandate in onda, costituendo un’invettiva nei confronti dell’intero genere maschile e una denuncia molto pesante verso lo Stato, reo di non tutelare come dovrebbe le donne. Mi sorprende ancora di più questo insistere su un tema come il patriarcato, ormai estinto (perlomeno in Italia) da decenni.

Nemmeno il contorno storico è di aiuto: poco prima della morte di Giulia sono stati proiettati nelle principali sale cinematografiche due film come Barbie di Greta Gerwig, paladina del femminismo pop, e il campione d’incasso C’è ancora domani di Paola Cortellesi. In entrambi i film si parla di patriarcato, al punto da rendere virale il tema, con tutto ciò che comporta. Il primo film è ambientato ai giorni nostri, mentre quello dell’artista romana fa riferimento al secondo dopoguerra, nel quale si è verificata una sorta di accelerazione nel tessuto storico e sociale che ha portato (finalmente) le donne ad avvicinarsi a determinati diritti dei quali godeva solamente l’uomo (come il diritto di voto). Se da un lato la Cortellesi ha l’indubbio merito di descrivere (molto bene) una società nella quale vigeva la separazione dei ruoli, in cui il pater familias (il patriarca per l’appunto) lavorava e portava a casa la pagnotta, figura che doveva essere rispettata, accudita dalla donna che veniva relegata il più delle volte a un ruolo da casalinga (quando raramente lavorava, a parità di mansioni, percepiva uno stipendio nettamente inferiore all’uomo), dall’altro il modo in cui viene rappresentata la figura dell’uomo è, a mio modesto avviso, eccessivamente caricaturale e poco oggettivo. Il personaggio interpretato da Mastandrea, ancora sul lettone matrimoniale, omaggia la propria mogliettina con un bel ceffone in segno di dolce buongiorno. Si tratta di un personaggio violento, senza cultura, equilibrio e rispetto per la donna. Così come il padre che, sebbene si trovi in punto di morte, consiglia al figlio di picchiare meno ma più forte la moglie per farsi rispettare. Non si salva nemmeno il pretendente della figlia di Delia (Paola Cortellesi) che, una volta ufficializzato il fidanzamento, considera la compagna alla stregua di una sua proprietà, sottolineando il concetto con un altro ceffone ben assestato. Insomma, se escludiamo il soldato di colore e pochissimo altro, l’uomo descritto dal film della Cortellesi è una figura assolutamente negativa. Nel film di Barbie, così colorato, ironico, spassoso ma serio, vige un maggior equilibrio che porta i personaggi interpretati da Margot Robbie e Ryan Gosling a una sorta di compromesso finale, figlio del rispetto verso le figure di uomo e donna.

Come poc’anzi accennato, la cultura patriarcale è realmente esistita in Italia ma è scomparsa da decenni. Mi trovano molto d’accordo, a questo proposito, l’analisi lucida espressa da Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano e dallo psichiatra Alessandro Meluzzi, i quali, sostanzialmente, sostengono la stessa cosa. Secondo Travaglio il patriarcato è un fenomeno sociale che non esiste più da tempo. La fine del patriarcato e l’inizio dell’emancipazione della donna ha messo in testa ad alcuni l’idea che la donna debba tornare a obbedire, terminando il processo di emancipazione. Meluzzi, partendo dall’assunto che i femminicidi sono in netto calo rispetto al passato (i numeri ISTAT lo confermano), sostiene come nell’80/90% dei casi il femminicida non sia un patriarca, ma un maschio fragile in condizione di depressione abbandonica (vedi Filippo Turetta). L’uomo non sarebbe, quindi, in grado di metabolizzare la perdita, di accettare un no, arrivando a uccidere quello che considera l’oggetto del desiderio e della separazione. Il problema, secondo lo psichiatra, starebbe nella mancanza di una grammatica di sentimenti, di un codice comunicativo.

In merito al femminicidio, se ci atteniamo ai freddi dati, confrontando i numeri del 2023 con quelli degli ultimi 20 anni ci accorgiamo come siano in costante ma lenta diminuzione. Non esiste, dunque, una reale emergenza in merito. Tornando ai dati oggettivi, nel 2021 sono state uccise 100 femmine e circa 200 maschi: se un allarme esistesse, sarebbe semmai ascrivibile al maschicidio. Di questi 100 femminicidi, 20 sono attribuibili alla criminalità organizzata (nessuna ombra di patriarcato, dunque); quasi il 30% è dettato da motivi economici. Solo il 31% delle donne sono state uccise per motivi passionali. Si parla evidentemente di casi isolati, come quello del Turetta, uomini senza spina dorsale, anaffettivi, con problemi comportamentali e psicologici, non certo culturali. Tuttavia, fa comodo citare nuovamente il patriarcato, fenomeno di cui, oramai, tutti parlano per l’urgenza di avere voce in capitolo. Seleziono, a riguardo, la dichiarazione più grottesca tra le tante: rifiutare di mangiare animali e loro derivati è una critica ai sistemi produttivi, al capitalismo, al razzismo, all’omofobia e al patriarcato: lotta politica interiezionale contro ogni tipo di sopraffazione (Lorenzo Biagiarelli, food blogger).

Non si può nemmeno parlare di omicidio di Stato, in quando l’Italia è la terza nazione europea (davanti alle civilizzate Francia e Germania) per il più basso numero di femminicidi, anche perché le leggi contro chi commette determinati reati esistono e sono già stringenti, nonostante gli interventi a tutela delle donne non siano sempre tempestivi. Ma si sa, alla stampa e ai media in generale fa comodo calcare la mano, cavalcare l’onda, seguire le mode, basandosi sul meccanismo perverso del divide et impera. Il 2019 è ancora dietro l’angolo...




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