Ossessione - InEsergo

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02 Novembre 2022 - Storie

Se hai il naso chiuso non leggere Borges
 
Ossessione
 
“Ossimoro: figura retorica che consiste nell’accostare due parole contrapposte. Dal greco oxýmoron, composto da oxýs ‘acuto’ e morós ‘ottuso’: l’ossimoro è un ossimoro esso stesso. Esprime qualità inusuali di un concetto […] difficilmente descrivibile altrimenti. Parla alla pancia e al cuore.”
(unaparolaalgiorno.it)

Scrivo ciò che stai leggendo a causa di un raffreddore. Un raffreddore tanto forte da essere tiranno e umile al tempo stesso, privo cioè di corona. L’articolo il davanti a raffreddore e la continua e voluta ripetizione di questo stato alterato di salute, potrebbe rendere meglio l’idea dell’impatto che ha sul sottoscritto. Sarebbe inutile evidenziare, in quanto già palese, che l’essere umano di sesso maschile possiede una soglia del dolore talmente esigua (anche quando gonfia il petto e proprio per questo), che il naso chiuso non può che equivalere a imminente soffocamento.

Per quanto appaia un’iperbole, in realtà non lo è; laddove per realtà si badi bene a intendere la propria percezione delle cose, conscia o inconscia che sia.

Scrivo ciò che stai leggendo a causa di un raffreddore e dello Zahir.
Quest’ultimo è un breve racconto dello scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), contenuto ne L’Aleph, opera magna.
La parte di me che tra poche righe andremo a conoscere, s’aggrappa con le unghie al salvagente della buona letteratura anche solo per distrarsi dal conto alla rovescia degli ultimi respiri.

Caso vuole (ma il caso, lo sappiamo bene, non esiste) che scelga questo libro letto oramai alcuni anni or sono e che lo apra, sempre a caso (ma il caso…), a pagina 84 dell’edizione Adelphi del 1998: Lo Zahir.
Non ricordarlo minimamente dovrebbe rendere la rilettura ancora più piacevole. E se di ciò è convinta la ragione, l’inconscio fomentato dal malessere la zittisce in breve tempo.
Perché è un racconto sull’ossessione, di cui trascrivo fedelmente le prime righe.

“A Buenos Aires lo Zahir è una moneta comune, da venti centesimi; graffi di coltello o di temperino tagliano le lettere NT e il numero due. 1929 è la data incisa sul rovescio.”

Ma, prosegue lo scrittore, lo Zahir fu anche una tigre in Gujarat alla fine del 1700. Mentre presso Giava fu un cieco, lapidato dai fedeli della moschea di Surakarta. Nel corso dei secoli e delle civiltà prese altre sembianze: un astrolabio che Nadir Shah fece gettare in mare; una bussola che un tale toccò; una vena nel marmo di uno dei milleduecento pilastri della moschea di Cordova. Persino il fondo di un pozzo.

“[…] Uscire dalla mia ultima visita a Teodelina Villar e bere un bicchierino in una mescita era una specie di ossimoro; la sua grossolanità e facilità mi tentarono (la circostanza che vi si giocasse a carte aumentava il contrasto). Chiesi un’aranciata; nel resto mi dettero lo Zahir: lo guardai un istante; uscii, forse con un principio di febbre.”

Lo Zahir è un’ossessione, qualcosa a cui non smetti più di pensare. E Borges in questo racconto tragicamente reale e metafisico, pare suggerire che anche quando lo gettassi nelle profondità marine, è nelle tue profondità che va a sedimentarsi. Lo Zahir non è un oggetto e non sono gli occhi ad esserne schiavi.
E se fosse l’ipotalamo, l’area ancestrale del cervello, responsabile delle emozioni più recondite, la nostra Fossa delle Marianne?
Dragare il suo abisso è impresa titanica, la pressione è altissima e il buio stritola. Non si può rischiare di tornare a vivere cercando di non distogliere lo sguardo, una volta trovata, davanti alla vera faccia dell’ossessione, con la convinzione, non supportata da dati empirici, che abbia un impellente bisogno di mostrarti una ferita. Forse chiede troppo? Forse sono solo inguaribili capricci.

Più ragionevole provare a dimenticarla, giorno dopo giorno, distraendosi con qualcosa di innocuo: una moneta, una tigre in gabbia, un cieco a cui non si è legati, un astrolabio, una bussola, una vena nel marmo, un rito insindacabile, un acquario a cristalli liquidi, la bandiera d’identità, l’orgoglio in una palla che rotola, la pausa caffè, il sarcasmo, la meditazione-per-rilassarsi.
Il dito anziché la Luna.

“Vi furono sere in cui mi credetti tanto sicuro di poterla dimenticare che la ricordavo di mia volontà. Fatto sta che abusai di quei momenti; dar loro inizio era più facile che porvi fine.”

Mentre sono immerso nel libro, il simpatico ipotalamo, vistosamente in affanno, mi intima di chiuderlo e aprire la finestra in cerca di aria fresca. Leggere di un assillo, nella condizione attuale, ha sulla mia parte antica e irrazionale, terrorizzata come un bimbo che pensa di morire, un effetto claustrofobico: ma è proprio tale disagio a farmi percepire l’ossessione come uno spazio che si restringe sempre più. Fuggire non si può, anche perché il pensiero fisso è fuga in sé.

E chi fugge dalla fuga?  
Io per esempio. Ci provo da sempre. Di ossessioni più o meno piccole ne getto in fondo al mare a tonnellate, innumerevoli maschere di un unico volto.

Innocue e devastanti.
Facce della stessa moneta.
Lati della stessa Luna.
Pancia e Cuore.
Buio e Luce.
Dio e Diavolo.
La Genesi dell’ossimoro.

Io e anche tu.




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