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06 Maggio 2024 - Cinema

Il canto del cigno

The Old Oak
  
Era da tempo che volevo scrivere qualcosa su uno dei miei registi preferiti, Ken Loach, e credo che questo sia il momento giusto per farlo. Loach, infatti, ha appena dichiarato che The Old Oak, sarà il suo ultimo lungometraggio: «per le riprese di un film devi stare via un anno o giù di lì, sarebbe meschino lasciare mia moglie tanto a lungo alla sua età da sola. Tra un paio d’anni saranno 90, le tue abilità diminuiscono, la tua memoria a breve termine va e la mia vista è piuttosto spazzatura ora, quindi è abbastanza complicato».

A onor del vero la fine era già stata annunciata urbi et orbi nel 2014 ma si era trattato di un falso allarme. Pochi anni dopo videro la luce due dei suoi più bei film in assoluto: Io, Daniel Blake (potentissimo e necessario) e Sorry we missed you, invettiva in pieno stile Loach contro la Gig Economy il cui protagonista lavora per un servizio di consegne che ricorda molto da vicino Amazon. Se davvero The Old Oak sarà l’ultimo film del regista britannico, sarà il migliore sigillo su una carriera durata circa 60 anni.

Loach è un regista che è andato sempre in controtendenza, con fierezza. Il suo cinema ha dato voce alle problematiche e ai drammi dei ceti meno abbienti, ai reietti della società. Tutto molto distante dallo star system hollywoodiano, che non lo ha mai tributato in alcun modo, quasi snobbandolo, come fosse scomodo (molti dei primi lavori di Loach hanno subito pesantissimi tagli da parte della censura). L’Europa, invece, è da sempre stata più attenta e pronta a recepire le istanze del regista, premiandolo a più riprese: Palma D’oro nel 2006 per Il vento che accarezza l’erba e nel 2016 per Io Daniel Blake, uno dei suoi film più toccanti. Leone d’oro alla carriera al Festival di Locarno nel 1994 e tanti altri riconoscimenti sono il sacrosanto tributo a un cineasta che andrebbe studiato a fondo.

Nonostante abbia visto molti dei suoi film, confesso che The Old Oak mi ha letteralmente trafitto il cuore e lo scrivo senza retorica. Il film si ambienta nel 2016 in un piccolo paesino dell’Inghilterra settentrionale, ex località mineraria andata in declino negli anni. The Old Oak è anche il nome dell’unico pub rimasto nella piccola comunità, gestito da TJ Ballantine (interpretato da Dave Turner). Nonostante si tratti di un luogo fatiscente con innumerevoli problemi, il proprietario fa di tutto per portare avanti la baracca con dignità e coraggio. La situazione si fa delicata quando nella piccola comunità giungono alcuni rifugiati siriani che cercano accoglienza e umanità, nulla più. Accolti con diffidenza, alcuni di loro iniziano a frequentare il pub gestito da Ballantine, in special modo Yara, interpretata da Ebla Mari, giovane donna appassionata di fotografia con un passato burrascoso alle spalle. Gli avventori del locale non prendono bene l’arrivo dei rifugiati siriani e non fanno nulla per nasconderlo, accusando addirittura Ballantine di scarsa riconoscenza: da anni frequentiamo questo posto e tu ci tratti così?

La sceneggiatura affilata fa emergere in tutta la sua nettezza il malcontento nei confronti del diverso, ci sono momenti in cui stavo quasi per sentirmi male, dato il realismo delle sequenze e la tensione che si respirava attimo dopo attimo. Uno dei tanti meriti di Loach consiste nel far emergere questi conflitti sociali senza la benché minima retorica e senza tracce di buonismo. Una battuta della ragazza (Yara) - cerchiamo sempre un capro espiatorio quando le cose vanno male - fotografa molto bene l’aria che si respira dentro Old Oak. La rabbia di una società nella quale non ci si sente tutelati dallo Stato, dove si sta per perdere il lavoro, fa sì che il vicino sia visto sempre come una sorta di nemico giurato solo perché di etnia diversa dalla nostra, un possibile antagonista che può addirittura soffiarci il lavoro da sotto il naso. The Old Oak è un film forte, drammatico, attualissimo, che mostra una realtà non così dissimile da molte altre dove l’integrazione, molto spesso sbandierata ai quattro venti, è una chimera. Con il suo stile semplice, conciso e senza fronzoli, Loach riesce a farci immedesimare in Yara, così come in Ballantine, i personaggi più forti ed emblematici del film. Ballantine sembra lottare contro i mulini a vento, è uno dei pochi che cerca dall’inizio di far emergere l’umanità tra gli abitanti della piccola comunità, con il rischio di essere isolato da tutti.

Old Oak è soprattutto una storia di speranza, che riesce a emozionarci senza mai tediarci o scadere nel drammone. Loach è maestro in questo, il suo invito è quello di non vedere necessariamente l’altro come un nemico, ma come una risorsa di crescita, una possibilità di estendere i propri orizzonti sociali e culturali. Il messaggio, ovviamente, è di stretta attualità, dati gli innumerevoli conflitti ideologici nel mondo e la difficoltà, sempre maggiore, di integrarsi in una comunità nella quale non siamo nati. Il finale (stupendo), che non spoilero, è in pieno stile Loach. Usciamo dalla sala con molti interrogativi, ma con altrettante certezze. È davvero questo il mondo che vogliamo?

Mi sento di dire: grazie Ken, grazie per il tuo cinema, per la tua umanità, per il coraggio con il quale hai teso la mano a chi ne aveva davvero bisogno, per aver portato alla ribalta tematiche che raramente si vedono al cinema, se non in rari film indipendenti. Film come Riff Raff, Bread and roses, My name is Joe Black, Ladybird Ladybird, Piovono pietre, Io Daniel Blake, Sorry we missed you, sono solo alcuni dei lungometraggi di Loach per i quali consiglio caldamente la visione. Grazie ancora, Ken.



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