Non sono razzista, ma...
“Non sono razzista, non farei del male agli africani, ma mi fanno schifo, non posso farci nulla […]. Non per essere razzisti, ma se le donne dell’Europa dell’Est vengono in Italia è solo per trovare un italiano rincoglionito a cui poter spillare qualche soldo […]. Gli immigrati sono violenti, campano sulle spalle dello stato senza muovere un dito, rappresentano uno dei principali veicoli di trasmissione del covid, la colpa non va attribuita ai no-vax […]. Credo che i meridionali, in molti casi, siano inferioriˮ.
Questi sono solo alcuni esempi dell’attuale espressione culturale di una parte del nostro Paese; e sottolineo “una parte”, per fortuna. Gli slogan della paura e dell’odio costituiscono l’eredità culturale del pensiero della destra radicale.
Ma cosa s'intende quando parliamo della cultura di destra? Se nella contemporaneità si fatica a orientarsi in un caos determinato dall'insipienza e dal qualunquismo politico-ideologico, più chiaro e definito invece risulta il campo d'indagine nel momento in cui si volge l'attenzione al passato, indicando un ventaglio di intellettuali e scrittori che hanno declinato questo sistema culturale, appellandosi a valori quali la giustizia e la tradizione. Per comprendere ciò che la cultura di destra rappresenta e i modi in cui essa si dispiega, è doveroso richiamare all'attenzione le linee guida proposte dallo storico Furio Jesi nel suo celebre saggio Cultura di destra, pubblicato nel 1979. L'autore ha focalizzato le proprie riflessioni basandosi sul rapporto tra la storiografia, la politica e la letteratura dell'Ottocento e del Novecento, riuscendo a individuare le origini e la natura del linguaggio delle “idee senza parole”: un codice verbale strettamente legato al mito, concetto che nel tempo è stato sottoposto a diverse manipolazioni e tecnicizzazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi di tipo politico.
Il linguaggio esoterico utilizzato dai rappresentanti della destra tradizionale nasce all'interno dell'aristocrazia reazionaria ed è costituito da parole spiritualizzate, portatrici di valori appartenenti a un passato che non c'è più e che è chiamato a tornare, per porsi come legittimazione e fondamento del presente in vista della costruzione di un futuro migliore. Le idee senza parole non necessitano di una gran quantità di vocaboli, poiché l'obiettivo principale consiste nel far circolare il messaggio, il segreto, condiviso da chi parla e da chi si appresta ad ascoltare. Ogni mito politico dotato di una certa risonanza nella dimensione collettiva viene ricondotto all'ideologia di destra se è in grado di suscitare un senso di appartenenza, divenendo allo stesso tempo uno dei principali strumenti di controllo dei regimi totalitari. Le tecnicizzazioni dei materiali mitologici determinano un comportamento nell'essere umano che si configura come reazionario, in quanto mira al soddisfacimento della necessità di sfruttare gli altri uomini determinando così l'annichilimento delle coscienze. Tale meccanismo rientra perfettamente in ciò che Jesi definisce la religione della morte, altro pilastro portante della cultura di destra.
All’ideazione della religio mortis contribuirono alcuni studiosi del mito e della religione che avrebbero speso il loro impegno intellettuale per scopi tutt’altro che utili all'ampliamento delle conoscenze, bensì al fine di giustificare l'operato degli organi politici reazionari che hanno adottato nella loro propaganda una teorizzazione del valore sacrificale della violenza. La religione della morte raggiunge il proprio apice nella prima metà del Novecento con l'antisemitismo tedesco e il ritualismo dello sterminio degli ebrei, ritenuto il sacrificio necessario per la realizzazione della Großdeutschland. Tra gli anni '10 e gli anni '20 del secolo scorso, in occasione della rapida diffusione di un nuovo ordine pagano nazista - l'hitlerismo esoterico -, si concretizza la tecnicizzazione del mito dell'ebreo potente, privilegiato, dotato di misteriose qualità e quindi considerato pericoloso. L'ebreo è il nemico da abbattere ed è quindi in Germania che si sottoscrive il paradigma dell'uomo nuovo, superiore, pronto a morire in virtù della concretizzazione di un progetto superiore. Jesi ritiene che nei documenti meno pubblicizzati dalla propaganda nazista si celasse una profonda paura nei confronti del popolo eletto, dedito alle forze occulte. Non è un caso, quindi, che gli stessi nazisti si siano rivolti all'esoterismo, a figure come quelle dei maghi e degli astrologi per poter rispondere alla minaccia del popolo ebraico con una guerra “ad armi pari”.
Volgendo lo sguardo all'Italia e al suo retroterra culturale, invece, sarebbe possibile parlare di uno stretto legame tra la dottrina fascista e l'esoterismo? Jesi lo ritiene molto improbabile, vista la radicata presenza della tradizione cattolica in Italia e la marginalità occupata dalle società segrete. L'ideologia del neofascismo sacro non proviene dalla cultura della borghesia italiana che, nei primi anni del XX secolo, stava ancora faticosamente affermandosi in società. Jesi ci dice che «L'ideologia fascista e poi neofascista essoterica e sacra è soprattutto arrivata dall'estero, e nei casi in cui è riuscita a conquistarsi una certa aureola culturale prestigiosa ha approfittato di una situazione estremamente provinciale. È tipico l'esempio di Evola, che continua a essere trattato con un certo rispetto, sia pure solo “culturale”, anche da studiosi non fascisti».
Nel libro di Jesi, Julius Evola, filosofo e pittore dadaista, viene definito un vero e proprio rimasticatore di studi già intrapresi e approfonditi da altri intellettuali, la cui presunta originalità accolta dalla provincialità italiana viene giustificata dalla poca conoscenza della lingua tedesca, che in qualche modo ha fatto sì che si creasse una resistenza nell'analisi oggettiva delle fonti. Ma, al di là di qualsiasi tipo di pregiudizio intellettuale, Evola è indubbiamente una personalità culturale significativa nella destra tradizionale e ciò su cui ci focalizzeremo rimanda sostanzialmente al suo razzismo totalitario. Evola era fermamente convinto del fatto che la riflessione sulle presunte differenze razziali tra gli uomini dovesse fondarsi sull'assegnazione di caratteri razziali a ciascuna componente costitutiva dell'essere umano: il corpo, l'anima e lo spirito. In Sintesi della dottrina di razza esprime le sue idee antisemite, sostenendo la necessità di un processo di sintesi fra il razzismo biologico, quello psicologico e quello spirituale, per dar vita al cosiddetto razzismo totalitario; esso offre un sostegno ideologico alla nozione di razza, tiene insieme gli elementi della tradizione, precludendo così agli antifascisti e ai sostenitori di politiche egualitarie ogni margine di critica. Emerge quindi l’idea di un elemento indipendente dalla storia, eterno e occulto, che comporta l’immolazione di coloro che sulla scala gerarchica dell’essere si trovano a occupare i gradini più bassi, “gli ebrei onorari”.
Le teorie di Evola hanno mantenuto una certa influenza sulla destra italiana anche dopo la caduta del fascismo, divenendo un punto fermo per il neofascismo eversivo che si sarebbe manifestato negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Il rifiuto della modernità, la decadenza dell'Occidente, la controrivoluzione, sono tutte idee recuperate dai movimenti della destra radicale, come Ordine Nuovo o il Movimento Sociale Italiano, che hanno agito, facendo ricorso alla violenza, nel periodo che va dal 1969 al 1980: gli anni della nota “strategia della tensione”.
Ora, sebbene siano stati fatti riferimenti ad autori ed eventi lontani nel tempo, sarebbe erroneo ritenere che tutto ciò non abbia un legame con la nostra contemporaneità. Tornando alle citazioni riportate all’inizio di questo articolo, non pensate che si possa facilmente individuare in quelle parole una “velata” correlazione con le premesse teoriche approfondite finora? Io si, e la cosa mi preoccupa alquanto. Nonostante la logica degli intellettuali di destra parta più o meno da una legittima critica nei confronti delle falle del sistema democratico, la loro contraddizione consiste proprio nel fatto che l’obiettivo pratico volto a garantire l’ordine e la sicurezza si traduca sempre in un ricorso alla violenza e alla prevaricazione. La demonizzazione dell’altro ci permette di distogliere l’attenzione dai problemi reali, ci consente di deresponsabilizzare la nostra società da ogni suo fenomeno corruttivo e violento. Esprimiamo il nostro supporto alle donne afgane, ai loro diritti, e condanniamo (giustamente) la violenza dei Talebani, ma nel frattempo dai più recenti rapporti Eures sul femminicidio emerge che in Italia viene uccisa una donna ogni tre giorni. E l’assassino (o dovremmo dire Talebano?) è quasi sempre il marito (italiano), il fratello (italiano) o il suo vicino di casa (italiano).
Ci arroghiamo il diritto di discriminare gli immigrati, ignorando le ragioni storiche e politiche strettamente legate alle forme più sadiche del neocolonialismo, per il quale l’impero occidentale va considerato come l’unico responsabile, che hanno determinato l’esodo di ottanta milioni di profughi in tutto il mondo. E non contenti, dimentichiamo di essere stati immigrati e discriminati a nostra volta, quando tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo i nostri avi furono costretti a migrare in massa verso gli Stati Uniti, venendo spesso accolti malvolentieri dagli americani protestanti e quindi fedeli ad una tradizione anticattolica.
La verità è una soltanto: finché ci atterremo alla convinzione di essere la specie più evoluta al mondo, poiché in grado di disfare tutto quello che non riusciamo a controllare, saremo eternamente condannati allo stato di natura descritto da Thomas Hobbes, dominato dal conflitto e dalla sopraffazione. Ma niente paura, nessuno potrà mai permettersi di giudicare una vostra azione o affermazione volta a offendere il prossimo: l’importante sarà ripetere il mantra “non sono razzista, ma…” .