Nella Pineta
L'auto aveva fatto un bel viaggio; lo si vedeva dalle tante macchie fresche sul parafango. E chi la guidava non doveva essere del luogo, perché per arrivare fin lì c'era una comoda strada asfaltata che, evidentemente, non era riuscito a trovare. Il mezzo si inoltrava con passo sempre più cauto man mano che avanzava, come un animale in un territorio ignoto, finché non incontrò uno spiazzo non largo che dovette sembrare l'unico buono per fermarsi. Ma non scese nessuno. Per dieci minuti l'auto rimase così, a motore acceso e con i fanalini rossi in coda, finché qualcuno all'interno girò la chiave.
Con il ripristino del silenzio, la presenza dell'auto non sembrava più così fuori luogo. Dentro si vedeva abbastanza bene; c'erano due ragazzi. Per un po' sembrarono immobili, come aspettassero qualcosa. Poi il movimento cominciò e pian piano aumentò. Difficile dire chi avesse cominciato, difficile seguire la partita che andava certamente entrando nella sua fase culminante. Ecco, ora erano in piena lite; gesticolavano. All'improvviso lei scese sbattendo lo sportello e, senza neanche voltarsi, come sapesse bene la strada, si inoltrò a testa bassa dritta nella boscaglia. Aveva capelli neri a caschetto e una maglia a fasce larghe, bianche e rosse. Lui si precipitò fuori subito dopo; fece per seguirla ma poi rimase lì sui due piedi con lo sguardo confuso. Era forse il caso? No, si disse, e decise di lasciar perdere; ma già che c'era, prese a guardarsi intorno.
Lo scenario era di inizio primavera, ancora fresco il tempo, da maniche lunghe. La pioggia notturna aveva fatto piazza pulita degli aghi sul punto di cadere. Il vento trasportava odore di terra bagnata. Si trattava di una pineta costiera, come tante. Il posto gli sembrò anonimo ma selvaggio, in un modo che lo inquietava. Si voltò a guardare dove lei si era fermata. Doveva essersi fermata. E invece no, lei continuava a camminare, anzi era già lontana; e mentre la sagoma già quasi spariva tra i tronchi, il ragazzo decise di mettersi sulle sue tracce. In realtà il posto non era così selvaggio come sembrava. D'estate diventava accampamento di turisti e bagnanti, quindi discarica provvisoria. Per di più il loro passaggio continuo aveva impedito al sottobosco di affermarsi lungo alcune direttrici di sentiero piuttosto irregolari e tortuose che seguivano i piccoli dislivelli. Benché fosse fortunatamente lontano da centri abitati, qualcuno era riuscito a gettarci dentro dei rifiuti, di quelli ingombranti che non meritano la fatica di uno smaltimento adeguato. Ad esempio, una lavatrice caduta in avanti arrugginiva poco lontano dal luogo in cui la ragazza si era infine fermata. Le sue scarpe di gomma e di fango raggrumato si erano posate sul guscio di una lumaca temeraria, frantumandolo.
Stava appoggiata con la mano al tronco, quasi temesse di perdere l'equilibrio, e così rimase per qualche tempo. Sembrava stesse contemplando chissà quale paesaggio davanti a sé. Poi silenziosamente cominciò a piangere. “Eccomi, Carla” sentì dire finalmente da una voce affannata alle sue spalle. Era lui, ancora lontano; aveva smesso di correre, ora che vedeva il suo obiettivo a portata, e si avvicinava a passi lenti. Carla non si voltò a guardarlo, abbassò soltanto lo sguardo sulle scarpe mentre cercava di ricomporsi. E vide la massa molle della lumaca, mescolata ai pezzi di guscio e di fango, che veniva freneticamente lavorata dalle formiche. Si chinò, sciolse i lacci della scarpa destra, se la tolse. “Mi dispiace”, disse mentalmente rivolta a quel che restava della lumaca. “Mi dispiace” ripeté a bassa voce. “Ma con chi parli? Dici a me?” disse lui a pochi metri di distanza.
Carla appoggiò con cura la scarpa a terra, si tolse anche l'altra, rimase a piedi nudi sul tappeto di aghi reso morbido dalla pioggia. Tutto di quei luoghi le era familiare. Sentiva i piccoli delle tante specie di uccelli pigolare nei nidi, a decine, lì intorno, come sentiva i loro fratelli sbattuti a terra, tempo prima, dal vento, ancora chiusi nel guscio. Il mondo che canta, il mondo che trema, il mondo che divora. E anche la sua angoscia non era solo la sua. “Carla, aspetta, che fai?” disse mentre lei ricominciava a scappare e lui a inseguirla. “Carla!”.
Tra gli arbusti che ad ogni curva chiudevano la vista era molto difficile per lui seguire le strisce bianche e rosse della sua maglia ed era troppo stanco per cercarla ancora così alla cieca. Se solo si fosse fermata! Ma dopo poco tempo non la vide più. Decise che non c'era altro da fare che aspettarla alla macchina. Il problema era che non sapeva come tornare, perché si era spinto troppo lontano e non sapeva neanche più da dove era venuto. Così si trovò a girare a vuoto e non poté fare altro che sedersi sconfortato su un pietrone grigio affiorante dal terreno. E allora notò strisce bianche e rosse alla sua destra. “Caaarlaaaa!!” gridò da lontano. Tanto valeva che lei sapesse che la aveva trovata. Decidesse lei se il gioco era finito o no. Rimase lì a osservare cosa succedeva. Sembrava che lei si fosse fermata e lo stesse aspettando. Lui le andò incontro. Ma bastò poco per notare che quella, sì, era la sua maglia, ma di lei non c'era traccia. La maglia era stata appesa a un basso arbusto, quasi fosse ad asciugare. La raggiunse e la portò con sé; e poco più avanti, un pezzo alla volta, trovò tutto l'abbigliamento, dalla testa ai piedi. Non sapeva più che pensare. Doveva essere nei paraggi, completamente nuda. Perché? Temette il peggio.
Era facilissimo che non fossero soli, lì dentro; che ci fosse qualcun altro. Almeno non c'erano tracce di sangue lì intorno, per fortuna, ma potevano cominciare oltre. Avanzò con lo sguardo ora fisso a terra e con l'animo terrorizzato. Si accorse che c'erano tracce leggere sul letto di aghi e le seguì, finché più avanti agli aghi si mescolò la sabbia. Così alzò lo sguardo. Solo ora si accorgeva che era arrivato alla fine della pineta e che tra gli ultimi alberi brillava la vista del mare. Le tracce sulla crosta di sabbia rappresa dall'umidità erano assai più visibili. Discendevano la duna a zig zag, poi si dirigevano verso l'acqua. Al loro approssimarsi al mare prendevano a sbandare, a procedere sempre più incerte e caotiche. Non sembravano più neanche orme umane, prendevano dei tratti più profondi, a mezzaluna. Guardò in acqua col cuore in gola. C'era una strana bestia, di colore scuro, che nuotava in circolo non lontano dalla riva. Sembrava aspettasse lui, ma qualcosa gli diceva che se fosse entrato in acqua quell'animale che prima era Carla lo avrebbe azzannato e trascinato al largo. Perciò si sedette sulla sabbia fresca ad aspettare; allora la bestia, come avesse capito che non avrebbe ottenuto ciò che voleva, prese ad allontanarsi verso l'orizzonte, spruzzando schiuma a ogni colpo di coda. Il ragazzo la guardò allontanarsi con le lacrime agli occhi. Quando non fu quasi più visibile salutò un’ultima volta con la mano, lentamente. Era sgomento. Si alzò, prese i vestiti di lei e li sistemò con ordine sotto gli alberi, di fronte al mare; e lì stesso, stremato e sconvolto, si addormentò.
Era quasi il tramonto quando si risvegliò; subito guardò il mare. La bestia era ricomparsa e nuotava quasi a riva. Non voleva vederla. Poteva ancora pensare che fosse tutto un sogno, finché non la vedeva. Forse lo era. Si voltò verso il bosco. Poco dopo Carla lo raggiunse, prese i vestiti che lui le porgeva e lo baciò. “Allora, andiamo?”