Lo stagno delle ninfee
«Il riflesso pulito del cielo sull’acqua si intravede appena, quasi sopraffatto dalle ampie macchie verdi delle foglie di ninfee che galleggiano pigre sulla superficie del laghetto. Qui e là, piccoli tocchi rosa e violetti compongono i petali ancora chiusi, come adagiati sul loro letto verde, un attimo dopo il risveglio.
Sulle rive il verde esplode in tutte le sue tonalità, in forma di freschi cespi d'erba e di rami coperti di foglie; su tutto domina un imponente ponte di legno verde e celeste che si allunga sull’altra riva e che sembra a prima vista sospeso; in effetti, a quest'ora l'ombra che proietta è tutta rannicchiata ben lontana e forma una seconda arcata scura e stretta.
Al centro dello stagno, insieme alle foglie piatte e ai fiori dai colori squillanti, si intravede una macchia confusa; a ben vedere, si tratta di un corpo rovesciato che galleggia lugubremente.
È – questo - un dettaglio che fece scandalo già alla prima esposizione dell'opera.
L'autore stesso non volle mai fornirne una possibile chiave di lettura, lasciando così molto materiale di dibattito ai posteri; indubbiamente ciò contribuì ad alimentare l'interesse del pubblico, che ancora oggi, e forse anche più di allora, continua a rimanerne affascinato.»
Nel suo studio a Giverny, Claude Monet non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Eppure doveva finire, tentare almeno di finire. Nella sua testa il quadro era già composto, si trattava soltanto di fissarlo nella realtà, dove anche gli altri avrebbero potuto vedere come vedeva lui. Lavorava dall'alba e nelle ultime ore le pennellate si erano fatte rapide e nervose. Adesso, con la notte che lo incalzava, il lavoro era frenetico. Poteva farcela, finché tratteneva sulla parete buia della mente quei colori - così freschi al mattino! - che ora vacillavano come fiammelle stremate.
Ma sentiva la stanchezza guadagnare terreno, le fiammelle minacciavano di soffocare da un momento all'altro. Si scostò un solo attimo dalla vista del quadro, a far riposare gli occhi affaticati, ma quando tornò in posizione, con il pennello già appoggiato sulla tela, sentì la testa ondeggiare come una nave in burrasca. Strinse più forte il pennello e diede un ultimo tratto disperato alla tela; poi la nave sprofondò in avanti e lui perse l'equilibrio sullo sgabello.
Quando si risvegliò, trovò il buio; era un buio diverso dal solito, ma lui non se ne accorse subito. La prima sensazione che provò fu invece un forte bruciore sulla tempia, a destra. Doveva aver preso una botta contro... "contro la tela, certo", pensò, cominciando a ricordare.
Ma dov'era finita la tela, i suoi colori? Si alzò lentamente, dall'alto dei suoi cinquantanove anni. Accidenti, la lampada a petrolio si era spenta, forse proprio a causa della caduta. Procedette a tentoni per qualche passo, ma non riusciva a trovare nulla su cui appoggiarsi e si sentì tremendamente vecchio. L'idea fu insopportabile. “Sono qui!” si ritrovò a gridare nel vuoto silenzioso.
La sua voce rimbombò lontano e così a lungo che poté percepire l'affanno mescolato alle parole. E allora capì.
Non era nello studio, ma fuori.
C'era davvero di che stupire. Come diavolo era uscito e quando? Che ore erano? Possibile che non si vedesse nulla di nulla?
E poi, non riusciva a sentire nulla che lo aiutasse a orientarsi. Nessun luogo sulla terra poteva essere più silenzioso. Niente vento, nessun uccello notturno, né grilli. Rimase così, esterrefatto, per un tempo indefinito.
Ma, ecco, gli parve di sentire qualcuno mormorare. Una voce indefinibile, ora vicina, ora lontana, continuava a ripetere una sola parola, che non riusciva a intendere. Rimase fermo in ascolto, più incuriosito che turbato. Dopo qualche momento, la voce tornò a circondarlo da tutte le parti.
Ora riusciva a sentire meglio.
"Oscar!" "Oscar!"
Lasciò che la voce ripetesse il suo nome da ogni direzione. In quel buio disperato, sentire il suo nome di battesimo fu come vedere lucciole accendersi tutto intorno a lui; poi la voce assunse una direzione precisa, segnando un sentiero di suono che iniziò a seguire.
Più volte il richiamo cambiò direzione e rischiò di perderlo; all'ennesima curva, prese ad allontanarsi come se corresse e lui gli corse dietro a sua volta, finché non si fermò, come a segnalare che erano arrivati, e si spense.
Davanti a lui c'era lo stagno delle ninfee. Lo riconobbe a colpo d'occhio. Ma era tutto buio. I suoi colori brillanti si erano smorzati nelle tinte notturne, tanto che il ponte si intravedeva appena, benché fosse a pochi metri da lui. Il cielo poi era strano. Senza stelle, senza luna, ma con un vago chiarore che veniva da... non avrebbe saputo come chiamarlo. Dall'alto, certo, ma senza una fonte di luce precisa.
"Oscar! Eccoti qui!" disse una voce maschile alle sue spalle.
"Chi..." iniziò a dire, ma subito la figura divenne nitida. "Bazille!" gridò.
"Proprio io" disse lui sorridente. "Guardati, con questa barbaccia! Quanti anni sono passati? Eravamo giovani, allora, quando eravamo amici". "Trent'anni, rispose Monet. "Quasi trent'anni, da quando sei andato a morire al fronte contro i Prussiani."
"Già, già, ma raccontami di te. Cosa fai qui? Ti sei fatto proprio un bel giardino".
L'aria era affabile e cortese, ma sentì qualcosa di stonato nella voce del suo amico Bazille. Ma occorreva tenergli il gioco. Così cominciarono a passeggiare sull'argine.
"Lo sai, mi affascina il momento. Un momento preciso, quando la luce dà quei colori e non altri. È difficile spiegare, ma direi che hai già capito. Qui ho tutti i colori che voglio. Ho l'acqua, la luce in tutte le sue angolazioni. Appena colgo il momento, cerco di fissarlo bene in mente e mi butto a ritrarlo. È un lavoraccio, sai? Non posso fermarmi finché non ho finito."
"Interessante, quello che hai detto: Non posso fermarmi finché non ho finito. Ah, niente di nuovo! Il grande Monet sempre a caccia di nuovi colori, di nuova vita! Sai che ti chiamano così, adesso? Il grande Monet, il maestro! Non ti fermi mai, tu. Neanche quando la gente intorno a te cade. Io, Camille..."
"Che cosa vuoi?" Lo interruppe Monet.
"Io sono sempre stato qui. Sei tu che sei venuto a trovarmi. Non è paradossale che, per fermare un momento, devi rinunciare a vivere tutti gli altri? Ti sei mai chiesto se, piuttosto che far vivere le tue tele nella realtà, sei tu a vivere in loro? No, direi di no, altrimenti non saresti qui."
"Questa è casa mia, a Giverny".
"No! No, caro, questa è l'idea che tu hai della tua casa, del tuo giardino. È un momento, come dici tu". Si fermò. "Ti vedo perplesso. Davvero non te n'eri accorto?"
Monet rimase in silenzio. "Prenditi il tuo tempo" gli suggerì. "Guardati intorno". Si costrinse a guardare l'acqua: era immobile, così come le piante, le fronde degli alberi. Poteva essere vero? Ma Alice... e tutti gli altri! E Michel, Jean e Blanche, i suoi figli... Assurdo, totalmente assurdo. Eppure, quando si voltò Bazille era ancora lì.
"Va bene, ma come si esce da qui?" disse sconvolto.
"Te lo dirò, ma tu ti ricorderai di quello che ti ho detto?"
"Sì, certo."
"Non mi basta. Voglio che quando esci di qui lasci un segno che ricordi la tua promessa. Un segno che io possa vedere."
"Non capisco, ma va bene. Cosa devo fare per andarmene?"
"Ecco, sono qui proprio per aiutarti. Potrà essere doloroso, ma è sempre meglio che rimanere qui dentro, fidati. Aspetta" disse Bazille armeggiando con qualcosa appeso sul fianco a sinistra. Monet si avvicinò per vedere meglio. Era una fondina di cuoio, di quelle che si usavano nell'esercito. Inorridì. Guardò in faccia Bazille come a chiedere conferma dei suoi timori e quello sorrise.
"Grazie, grazie mille, amico mio, ma devo andare", disse Monet retrocedendo verso il ponte giapponese prima a piccoli passi, poi con una goffa corsa. Non era scampato ai Prussiani per essere ucciso dal suo migliore amico, sogno o veglia che fosse. "Aspetta! Aspetta, Oscar, si è inceppato qualcosa. Ah, ecco fatto!" disse Bazille con aria trionfale, reggendo la pistola nella mano destra. Ma ormai Monet era quasi sul ponte. "Aspetta, Oscar!" gli gridò in tono deluso.
Monet si fermò e si voltò a salutarlo con la mano, per l'ultima volta; poi riprese il cammino con crescente sollievo. Aveva quasi raggiunto l'altra sponda quando incappò in un punto non-finito nelle assi del ponte. Precipitò.
In quel silenzio innaturale, il frangersi dell'acqua e il frizzare della schiuma sembrarono una violenza inaudita.