Mary Christmas
Mary la conoscemmo a Londra, un giorno che era quasi Natale. Eravamo nel nostro solito pub quando entrò con altre due ragazze. Una era Lea, una nostra compagna di corso; la stronzetta non si era peritata di uscire con gente nuova senza invitarci. Ma era stata beccata. "Lea! Ehi!" "Lea!" La chiamammo così forte che qualcuno dagli altri tavoli si voltò. Lea venne verso di noi con una vera faccia di bronzo. "Ciao, gente, come va? Questa è la mia amica Ingrid e questa è Mary." La presentò così, a parte, come bastasse il nome a dire tutto. "Venite, sedetevi" dicemmo noi gioviali. "Ma non c'è posto" provò a ribattere lei. "Dai, non cominciare, ci stiamo tutti" disse Philip che era un po' il padrone di casa. Dovemmo stringerci un bel po', ma del resto il pub era già pieno. La vivacità della serata subì un'improvvisa impennata. Io ero finito all'angolo e accanto avevo Markus che si sbracciava a parlare alla meglio con il suo accento tedesco. E tedesco in quel momento non sembrava davvero, dritto e tutto sporto sul tavolo; di fronte a lui c'era Gemma, la nostra amica italiana, che badava ai fatti suoi sul cellulare, ed esattamente all'estremo opposto del tavolo, seduta quasi in fuori, c'era Mary.
Non sono bravo con le fisionomie. Il suo incarnato era chiaro, il naso piccolo, da inglese, i capelli neri non lunghi ma raccolti. Con il mento poggiato sul palmo aperto guardava con calma curiosità chi parlava. Ogni tanto aggiungeva qualcosa alla conversazione. Presi a guardarla lungamente. Non c'era in lei niente di particolarmente attraente o speciale. Credo fosse più il fatto che era proprio lì, speculare a me, e che potessi osservarla con tutta calma, che mi portò a incuriosirmi. In tutto questo, stavamo parlando di noi: da dove venivamo, cosa facevamo. Io dissi: "E Mary, da dove viene?" E così mi guardò. I suoi occhi, l'ho già detto, erano calmi e curiosi. C'era profondità in quegli occhi. Mi capite? Ed erano allungati: non inglesi, ma quasi orientali. Rimasi fulminato. Mi venne in mente un'immagine strana sui suoi occhi che poteva essere un complimento. "Sono di Dover" disse lei. "Ah, Dover..." dissi a mezza voce. Non osai dire altro.
Pensai che il resto della serata lo avrei passato così, a guardarla. Mi sarebbe già andata bene. Ma lei cominciò a ricambiare il mio sguardo e andai in confusione. Gemma si accorse del mio imbarazzo, guardò me, poi lei e si mise a sogghignare. "Ci sei caduto, eh?" disse a bassa voce. "Oh, andiamo!" risposi. "Provaci!" "No! Assolutamente! Chiacchieriamo un po', altrimenti se ne accorge." Gemma mi resse il gioco. Lei parlava nel suo inglese zoppicante ed io la corressi mille volte, ridendo. Bevevamo, parlavamo ad alta voce, e fuori per il freddo che faceva poteva anche stare cadendo la neve nel buio assoluto della notte. Mi dimenticai di tutto, anche degli esami da dare, anche di dover tornare tra qualche giorno a casa. Poi, all'ennesimo brindisi, mentre alzavamo i bicchieri mi sentii brillo abbastanza da affrontare lo sguardo di Mary. Il duello durò qualche lunghissimo secondo e finì senza vinti e vincitori, né davvero riuscii a capire cosa volesse da me. Insomma, mi arresi. "Gemma, io vado a fare un giro al bagno" dissi dopo aver dato fondo alla birra. "Permesso, gente, permesso!" gridai alla compagnia; tutti si alzarono ridendo e maledicendomi e io andai sul serio in bagno.
Tutto girava intorno a me meravigliosamente come spinto da una mano leggera. Uscii ancora con l'espressione dell'imbecille felice e poi me la ritrovai davanti. "Mary!" Non disse nulla. "Ti chiami Mary, vero? Mi è parso di sentire così" dissi un po' scemo. "Sì, sono io" disse seria. "Bene, bene. E come mai ti sei alzata?" "Sono in fila per il bagno" rispose. "Ah, bene, allora ci vediamo dopo al tavolo" dissi in tutta fretta mentre mi avviavo. "No, aspetta." "Come?" "Aspettami, ci metto poco". Rimasi di ghiaccio. E aspettai: mi costrinsi ad aspettare. Sarei morto assai più volentieri. Che voleva da me, con quello sguardo serio? Perché non si era lasciata semplicemente guardare? Aspettai che si compisse il mio fato. Il tempo di dare un'occhiata al cellulare e lei era tornata. Si avvicinò senza parlare, il suo sguardo era sempre calmo e curioso. Aveva un maglione nero, a trecce. Il motivo ricamato quasi non si vedeva, ma lo sentii sotto la pelle quando le appoggiai la mano sul fianco. Perché? Non mi aveva detto di farlo; caddi in un tremendo imbarazzo e ritirai la mano. "Prima volevi dirmi una cosa." disse infine. Come faceva a saperlo? Leggeva nel pensiero? "Sì, forse. Era sul tuo sguardo." "Cosa volevi dire sul mio sguardo?" "Una cosa stupida, niente di importante." Lei rimase lì in attesa. Dovetti risolvermi. "I tuoi occhi sono profondi, ecco. Mi danno quest'idea di profondità, come l'ombra di un albero su un prato assolato." "Davvero?" "Davvero, sì. Una macchia di buio in mezzo alla luce." "Cosa sei, un pittore?" rise; risi con lei e la mia angoscia si dissolse. Da quel momento si fece spiritosa, affabile. Non so quanto tempo parlammo lì in piedi, prima di tornare dagli altri, ma quando tornammo era giunto il momento di congedarsi tutti. Non l'avrei più rivista.
A che serve la tecnologia? Seguii il profilo di Lea e trovai il suo. Potevo scriverle. Lo pensavo mille volte, ma poi non lo feci mai. E più il tempo mi allontanava da quella sera, meno senso aveva riprendere i contatti. Era come inseguire un sogno che svanisce. Ogni tanto però venivo a sapere di lei: che a volte veniva su a Londra, che stava lavorando alla tesi, e più avanti qualcuno disse che era al dottorato da qualche parte nel mondo. E anche io intanto ero stato travolto dagli eventi. Ero tornato a Edimburgo, casa mia, lavoravo in una libreria in attesa di tempi migliori. Mi succedeva ancora di pensare al nostro incontro, anni prima. Non mi spiegavo il perché. Non era successo niente, era quasi Natale, dovevamo tutti tornare a casa. "Non amo che le rose che non colsi" pensavo. Una rosa che non avrei mai colto. E poi presi a lavorare in editoria. Finalmente qualcosa per cui avevo studiato, che mi faceva sentire vivo. Le cose migliorarono.
Un giorno Philip, il mio vecchio collega, mi contattò per mail per invitarmi alla presentazione del suo libro a una grande fiera dell'editoria a Londra. Naturalmente avevo già in programma di andarci, ma forse forse poteva ospitarmi, come ai vecchi tempi. Rispose di no, che in casa con i bambini piccoli sarebbe stato assai scomodo per me. Capii e non gliene feci un dramma. Però ci incontrammo al padiglione e scambiammo due parole a presentazione finita. "Guarda, c'è qualcuno che voleva vederti". C'era Lea tra le sedie del pubblico. "Lea, accidenti!" dissi abbracciandola." Saremmo rimasti a parlare tutto il giorno, ma c'era un'altra donna accanto a lei. "E la tua amica chi è?" dissi per non sembrare scortese. "Non la riconosci?" "Non mi sembra" dissi. "E' Mary, vi siete conosciuti una volta al pub ai tempi dell'università. Ti ricordi?" "Mary, dici?"
La donna di fronte a me aveva qualche capello bianco e l'aria stanca. Dov'era quello sguardo calmo e curioso? "Ciao, scusami per il disturbo, ci conosciamo appena, ma devo chiederti una mano. Vengo a vivere a Edimburgo per lavoro e non so ancora da che parte girarmi. I ragazzi mi hanno detto che sei di lì" disse. La guardai bene e misi a fuoco la situazione. Mary veniva a vivere a Edimburgo, mi chiedeva una mano per trovare un alloggio. Dopo tanti anni. "Perché non mi hai contattato prima? Perché hai dovuto chiedere ai miei amici di farci incontrare? Pensavo tra noi ci fosse un po' di confidenza" dissi ridendo. "Sai, dopo quella chiacchierata, non ho mai smesso di pensarti. Ti ricordi cosa dissi sui tuoi occhi, sul tuo sguardo?" "Scusami? Non ci siamo detti nulla quella sera. So a malapena il tuo nome." "Tu menti" dissi tagliente. "Uscii dal bagno e tu eri lì davanti. Sembrava che potessi leggermi nella mente. Sapevi che volevo dirti qualcosa. E allora io te l'ho detta, e abbiamo parlato tutto il tempo lì in piedi." "Stai parlando di telepatia, credo. Oppure di un'altra persona." La guardai tremante di rabbia. Poi compresi.
Mi gettai al suo collo, d'impeto. L'avrei uccisa se i miei amici non mi avessero trattenuto. Dicono che continuassi a gridare: "Chi sei, chi sei?" Ora sto meglio. Penso ancora a Mary, ogni tanto, dopo tanto tempo da quella sera al pub. Sapete quelle persone che sanno leggerti nel pensiero, quelle che anche se le hai appena incontrate, sembra che siate fatti l'uno per l'altra? Ecco, questa per me è Mary. Ma il tempo è passato e non l'ho più rivista. Chissà come sta?