David Lynch, genio visionario
Nei primi anni ’90 l’interrogativo “Chi ha ucciso Laura Palmer?” divenne un vero e proprio tormentone. Chi scrive, studente imberbe delle superiori, subii profondamente la fascinazione del breve trailer che con passaggi sempre più frequenti imperversava sulle TV nazionali. L’episodio pilota, andato in onda negli USA l’8 aprile del 1990, incollò davanti al piccolo schermo ben 35 milioni di statunitensi. Stiamo parlando di Twin Peaks, la Serie TV più influente della storia, ideata, scritta e prodotta da Mark Frost e dal più controverso, visionario, anarchico e spesso divisivo (come si attaglia alle personalità debordanti) regista degli ultimi cinquant’anni: David Lynch.
Ma perché ancora oggi, dopo ben trent’anni, Twin Peaks e, per estensione, il cinema lynchiano tout court, continuano a estasiare e turbare i nostri sensi? Credo che la componente onirico – visionaria sia il vero trait d’union, a partire dall’esordio scioccante di Eraserhead – La mente che cancella fino all’ultimo capitolo dell’esigua filmografia (dieci lungometraggi): lo sperimentale Inland Empire – L’impero della mente, girato interamente in digitale con una cinepresa semiprofessionale.
“Mi piace fare film perché mi piace perdermi in un altro mondo. I film sono un mezzo magico che mi permette di sognare al buio”. E ancora: “Vedo sempre più film separati da qualunque tipo di realtà. Sono piuttosto simili a fiabe o a sogni. Per me non sono un modo per fare politica o un modo per insegnare qualcosa. Sono solo cose, sono un altro mondo in cui scegli di entrare, se lo vuoi. La settima arte non dovrebbe d’altronde rappresentare un’evasione dalla realtà?
Ripercorrendo l’intero corpus lynchiano ci sovvengono uomini e donne con teste da conigli all’interno di una stanza dall’atmosfera asettica, una donna in fuga (tipico topos del regista americano), un drappo rosso che conduce in una dimensione ultraterrena, volti deformati, pavimenti a rombi bianchi e neri, enigmatiche creature, il lato oscuro e morboso di una piccola cittadina i cui abitanti nascondono segreti inconfessabili, personaggi con nomi autodescrittivi, strutture narrative non lineari. Il tutto avvolto dalle atmosfere musicali eteree e misteriose di quel genio di Angelo Badalamenti. Non sono tuttavia le sole colonne sonore dei film di Lynch a rimanere scolpite nelle orecchie dei suoi adoranti fans, ma anche i suoni, come il sibilo del vento in Twin Peaks o i cigolii sinistri del letto in Erasehead: il rumore diviene elemento imprescindibile, al punto da immergere lo spettatore in un mondo parallelo.
Il cinema di Lynch è volutamente controverso, così come i finali, spesso insoluti, lasciati aperti. Gli spettatori ancora oggi, dopo anni, continuano a scervellarsi per trovare il classico filo d’Arianna, il tassello mancante del mosaico, la chiave di volta per decifrare il senso nascosto. Il didascalico non si addice al regista: “mi mette a disagio parlare dei significati dei miei film perché si tratta di una cosa molto personale. Il significato per me è diverso dal significato per qualcun altro”.
Che il cineasta americano sia uomo di poche parole, come ricordato dalla prima moglie Peggy Lentz, è risaputo; poco importa se a parlare sono le immagini, i suoni di scena, con i dialoghi spesso ridotti a veri e propri cerebrali ed enigmatici orpelli. Si pensi, ad esempio, che nel già citato Inland Empire - datato 2006 – il copione non era nemmeno previsto. Nel film veniamo letteralmente risucchiati per tre ore in atmosfere che definire impenetrabili risulta riduttivo: torbido, contorto, cervellotico, dialoghi ai limiti del nonsense e continui primi piani con i volti deformati degli attori che ci conducono in un vortice di alienazione dal quale sembra impossibile fuoriuscire.
Ma è l’esordio sul grande schermo, nel 1977, con Eraserhead – La mente che cancella a costituire il classico spartiacque. La telecamera si "insinua" tra i termosifoni, una donna deforme canta in teatro una sorta di litania maledettamente ossessiva, l'attore protagonista cerca invano di mangiare un pollo sintetico, un essere alieno dalle sembianze di coniglio senza arti fa capolino. Perché è giusto citare Eraserhead? Perché, com’è spesso accaduto in passato nella storia del cinema, prima di venire considerato un capolavoro il film venne sonoramente bocciato dalla critica e definito “impossibile da distribuire”.
Lo stile di Lynch va via via cristallizzandosi, divenendo unico e inconfondibile, nel “trittico” Velluto blu (1986), Strade perdute (1997) e Mulholland drive (2001), considerati non a caso capolavori di cinema surreale. Strade perdute, con quell’intro psichedelico indimenticabile, possiede evidenti rimandi freudiani. Nel film viene sublimata la trattazione del tema del doppio e attraverso il sipario riusciamo a penetrare nella cosiddetta “stanza dell’inconscio”. Tuttavia, relegare Strade perdute a una chiave di lettura esclusivamente freudiana appare alquanto riduttivo. Lynch sembra compiacersi nel condurci sadicamente dentro il suo labirinto fatto di sogni e suggestioni, dove la narrazione subisce brusche accelerate a causa di colpi di scena improvvisi e destrutturanti. Ma è Mulholland drive che rappresenta, a parere di chi scrive, il manifesto del cinema di Lynch per eccellenza, con due protagoniste difficili da dimenticare e una serie di rimandi allegorico–simbolici che sviluppano in maniera magistrale tutti gli elementi descritti.
Il grande pubblico si affezionerà definitivamente a Lynch grazie a Twin Peaks. E allora come non ripensare all’agente Dale Cooper (interpretato dall’attore “feticcio” Kyle MacLachlan), alla già citata Laura Palmer, alla grottesca caratterizzazione dei personaggi, affetti da comportamenti ai limiti del risibile al punto da passare con estrema disinvoltura dall’odio all’amore, dal dramma all’estasi pura, alla stregua di una commedia? Sono come marionette, caratteristi che vivono all’interno di una realtà fasulla pilotati da una sorta di entità esterna. Lynch ci comunica a chiare lettere che quello che osserviamo appartiene a una realtà patinata, filtrata ad arte. L’enigma diviene così sempre più incomprensibile, con lo stordente finale che lascia volutamente insoluti una marea di interrogativi. Per evitare fughe di notizie il regista girò due finali diversi e nemmeno gli attori sapevano quale sarebbe andato in onda. Anche in Twin Peaks il tema del doppelgänger (doppio) viene trattato in maniera eccellente: bene contro male, la “Loggia Bianca” e la “Loggia Nera”, due parti che, in realtà, si compenetrano in modo indissolubilmente simbiotico con il drappo rosso (onnipresente). Lynch rese le scene girate all’interno della Loggia Nera ancora più tormentante, dal momento che pretese che gli attori recitassero le battute al contrario per aggiustarle poi in fase di post-produzione, ottenendo l’effetto di voci quasi deformate che immergevano lo spettatore in uno stato di profonda inquietudine.
Pellicole come The Elephant Man o The Straight Story, per quanto meravigliose, portano la firma di un Lynch più convenzionale ma pur sempre immenso e meriterebbero una trattazione a parte.
In conclusione, possiamo con sicurezza affermare che David Lynch, con il suo cinema pregno di simbolismi, ci conduce per mano verso una dimensione onirica, parallela alla realtà di tutti i giorni. L’evasione, alle volte, può anche essere un bene.