L’uomo senza qualità
“Chi nell’uomo vuol costruire sulla pietra deve servirsi unicamente delle qualità e delle passioni più basse perché solo ciò che è indissolubilmente legato all’egoismo ha consistenza e può sempre esser messo in conto: le intenzioni più nobili sono infide, contraddittorie e fuggevoli come il vento”
Robert Musil, L’uomo senza qualità
L’ho tenuto lì, in bella mostra nella mia libreria personale, per quasi vent’anni. Regalo di laurea, nel 2003, di un mio carissimo amico. Sempre in procinto di iniziarlo ma senza osare farlo. Lo temevo, come non mi era mai capitato con nessun’altra opera letteraria. Sarà stata la consapevolezza che fosse un libro incompiuto, senza una vera e propria trama, fortemente concettuale e filosofico; sarà stato quell’incipit, tanto sublime quanto contorto nella sua sintassi (“Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere”); sarà stata la sua mole elefantiaca: due tomi enormi, 1180 pagine edite e altre 600 non edite, ma altrettanto significative, composte da abbozzi, frammenti, rivisitazioni.
Del resto, sapevo che prima o poi mi sarebbe toccato confrontarmici. Si può non leggere, nell’arco di una vita, L’uomo senza qualità di Robert Musil? Opera inserita in qualsivoglia ‘classifica’ consultabile sui migliori libri di sempre?
No, non si può.
Così, lo scorso settembre l’ho preso in mano e, in stile Alberto Sordi con i mitici spaghetti ne Un americano a Roma (Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io mo’ te magno…) mi son detto: “Ah sì? Continui a occhieggiarmi con aria di sfida? E ora ti faccio vedere io, mio caro Musil!”
Ecco, dopo otto mesi attraversati da momenti di frustrazione e fatica indicibili, sono arrivato a leggerlo quasi tutto (1400 pagine delle 1800 circa: le ultime parti con i frammenti e le bozze proprio non sono riuscito). L’esito? Scontato… ha vinto Musil.
Mi arrendo, lo devo ammettere: ti sfugge tanto, troppo. Delle sue elucubrazioni, dei suoi incredibili personaggi, della cornice complessiva. Con la consapevolezza che, per assurdo, avendo pure a disposizione quattro vite per (ri)leggerlo dieci volte, ti sfuggirebbe comunque sempre quel tanto, troppo di cui sopra.
Rimangono squarci di bellezza infinita, riflessioni di profondità abissali, dialoghi drammaticamente esilaranti, la delicata sensualità delle sue protagoniste femminili. E altro. A partire dallo scenario di fine belle époque, di un mondo aristocratico-borghese (quello dell’agonizzante Regno Austro-Ungarico del 1913) sull’orlo dell’abisso della Prima Guerra Mondiale sempre più innervata da quei movimenti nazionalistico-razzisti che avrebbero contribuito all’olocausto della Seconda.
Se con le mie limitate capacità dovessi individuare un fil rouge che attraversa la composizione, beh, la individuerei in una sorta di contrapposizione costante e onnicomprensiva tra Spirito e Materia, tra Ozio e Operosità, tra Pensiero e Azione. Negli sforzi di conciliazione di questa dicotomia hegeliana, da parte del protagonista Ulrich, l’autore, pur pienamente consapevole della crisi del Pensiero, pare provare a dare una risposta all’umano divenire. Il risultato di tale sforzo è che è impossibile afferrare il senso del tutto, in termini universali; bisogna piuttosto continuare a svolgere un’attività di riflessione/azione perenne e continuativa.
Il fine ultimo cui pare tendere Ulrich è raggiungere il cosiddetto Regno Millenario, quello cioè in cui l’Uomo riuscirebbe finalmente a vivere in armonia e in pace con se stesso e con gli altri: né più né meno che il paradiso-in-terra.
Chiaro che questo obiettivo risulterà totalmente irrealizzabile (“Non c’era dubbio: se oggi Iddio ritornasse in terra per fondare quaggiù il Regno Millenario, nessun uomo pratico ed esperto gli darebbe la sua fiducia, a meno che oltre al Giudizio Universale si adottasse un sistema penale con solide prigioni…”). E, anzi, Ulrich vedrà nella propria decadenza di ‘uomo senza qualità’ il disfacimento dell’Essere. La lotta per la comprensione, quindi, nel mare magnum delle possibilità che all’uomo, dotato di Libero Arbitrio, vengono date, è sempre accompagnata da un’idea di fondo della sconfitta. Sconfitta del sapere e della conoscenza. Sconfitta dell’Uomo nel suo tentativo di dare una risposta alla complessità.
Attraverso i pensieri dell’antagonista di Ulrich, il magnate industriale prussiano Paul Arnheim, che si rivolge idealmente a Dio, Musil esprime quella che pare una pietra tombale su tutto il discettare di cui sopra (e, ahinoi, drammaticamente attuale a distanza di un secolo):
“Il denaro non è forse un metodo sicuro quanto la forza nel trattamento dei rapporti umani, e non ci consente di evitare gli ingenui sistemi coercitivi? […] Il capitalismo, come organizzazione dell’egoismo secondo il grado della capacità di procurarsi denaro, è l’ordinamento più grandioso e tuttavia più umano che noi abbiamo saputo elaborare in Tuo onore. […] Arnheim avrebbe suggerito al Signore di organizzare il Regno Millenario secondo i criteri commerciali e di affidare la sua amministrazione a un grande uomo d’affari che avesse naturalmente anche cultura filosofica ed educazione mondana”.
Una frase da far tremare i polsi. Quasi profetica, alla luce del ruolo che il denaro e il sistema capitalistico ha vieppiù avuto dal Secondo Dopoguerra in avanti.
Insomma, L’uomo senza qualità si configura come una delle ultime (l’ultima?) opera letteraria della storia che ha provato a dare una risposta alla complessità del vivere. Dopo di essa, sarebbe prevalso un atteggiamento di resa e di impotenza. Per questo va letto.
Ribadisco che non lo si può capire appieno. Sfugge tanto, troppo. Ma la grandezza è tale che qualcosa ti arriva comunque. E tanto basta…