La legge di Murphy
Poco prima che il SUV entrasse dalla vetrina la situazione dentro quel bar alla moda era più o meno serena. C’era un atteggiamento e un’atmosfera già vista, già masticata, sembrava un film di quelli ambientati a Williamsburg.
Chi sorseggiava caffè, chi birra scura, chi si atteggiava, chi snocciolava aneddoti, chi titoli di studio e parole altisonanti, piccole vittorie e grandi traguardi, chi si scambiava sguardi annoiati e chi, molto semplicemente, avrebbe tanto voluto essere da un’altra parte.
L’idea di fondo era comunque quella di portarsi a casa qualcuno per farci l’amore o per parlare, per litigare, farsi raccontare qualcosa, o, nella migliore delle ipotesi, farci sesso per sentirsi una merda il giorno dopo, una merda ma con qualcosa da raccontare, atteggiandosi a povera vittima degli eventi, aggiungendo che comunque non c’è veramente mai nessuno di interessante, e guardare di sfuggita il telefono in attesa di qualche messaggio su WhatsApp che attesti che non è stato solo sesso o un aneddoto da raccontare molti anni dopo infarcendolo di particolari assurdi e tragicomici.
La Legge di Murphy semplificandola al massimo dice che: “se una cosa può andare male lo farà”. È pseudoscienza, ma del resto se la gente crede al paradiso soltanto perché è un premio ghiotto perché io non dovrei credere alla legge di Murphy?
Il locale era ben arredato, sembrava finto ma ben arredato, era tutto perfetto, perfettamente disordinato, poltrone vecchie ma non troppo, quadri appesi male, tavolini da caffè presi a casa di chissà quale povera zia che adesso sarà senza tavolino per compiacere l’ego di quattro millennial stronzi con la mania della roba vecchia.
Il locale era abbastanza perfetto, instagrammabile, liscio, senza crepe, perfetto per scambiarsi conversazioni di circostanza con qualche slancio che fa colpo sulle ragazze cinefile, tipo: “trovo spregevole che la traduzione italiana di Eternal Sunshine Of The Spotless Mind sia Se mi lasci ti cancello”
(Che per carità è anche vero, ma cambia repertorio hai 43 anni cristo santo)
Lei era in fondo alla sala, aveva una giacca di tweed e una maglietta con su scritto: “io non tremo, è solo un po’ di me che se ne va”. Non ricordo mai le magliette di nessuno, però quella la ricordo, la ricorderò sempre, finché camperò io mi ricorderò quella maglietta e molto probabilmente quel viso stupendo, quei capelli raccolti, quel disordine che al contrario di tutte le persone stipate in quel luogo sembrava reale, era un disordine disordinato, come i disegni dei bambini, quelli fatti male che però hanno qualcosa di bello perché vorresti sistemarli ma non sai da dove iniziare e allora li lasci così come sono, perché mica per forza dobbiamo essere perfetti.
Quando uno stronzo con il SUV ha spaccato la vetrina la musica dentro il locale era invadente ma nemmeno brutta, era un sottofondo pallido, uno di quelli che non ricorda nessuno, chissà come si sente uno che compone sottofondi, come minimo frustrato.
Questa macchina nera piombò sulle nostre vite come una cattiva notizia, una metafora fin troppo smaccata della caducità delle cose, il fragore fu enorme, i vetri che schizzavano qua e là come grandine, le urla, il panico, le bottiglie che esplodevano e i miei occhi nel delirio cercavano lei, più che altro per sapere se stesse bene.
Sembrava anche lei presa dal panico ma si muoveva più lentamente degli altri, la sua espressione era corrucciata ma non preoccupata, sorpresa ma non scomposta, secondo me lei sarebbe stata bella anche nel bel mezzo di un pianto disperato.
C’erano poche possibilità che un SUV nero sfondasse la vetrina del locale in cui ero finito per caso e sempre per caso avevo l’impressione di essermi irrimediabilmente innamorato, ma tant’è.
È successo, La legge di Murphy nella sua implacabilità si era manifestata.
Polizia, ambulanza, giornalisti, smartphone, punti di sutura, antidolorifici, tagli, ecchimosi, lividi prima nero/viola e poi gialli, o forse il contrario, non ricordo mai la cronologia dei lividi.
Mentre il paramedico mi cuciva il sopracciglio la cercavo con lo sguardo, come si cerca una scusa quando ti hanno colto in fallo, come le monete quando la cassiera te le chiede e tu chissà perché non vuoi deluderla.
La cercavo ma non la vedevo, lei non tremava e non se ne era andato soltanto un po’ di lei, era scomparsa proprio del tutto, nel fragore dei pezzi di vetro che si disintegravano in giro per il locale.
Sarebbe stato bello tornare a casa insieme, raccontarsi qualcosa, le impressioni che avevamo avuto, io avrei finto di non aver avuto paura ma poi, dopo anni, avrei confessato che un pochino di paura magari l’avevo avuta.
L’avrei invitata a casa mia, ma non avrei fatto niente, avremmo forse parlato, fumato qualche sigaretta, bevuto una birra, magari lei mi avrebbe parlato del suo ex e io della mia, forse poi ci saremmo rivisti e lei avrebbe avuto un’altra maglietta interessante o un paio di gazzelle giallo ocra.
Forse dopo mesi ci saremmo baciati, forse addirittura per più di quindici minuti, avremmo parlato, e parlato ancora, ci saremmo amati e sarebbe finita irrimediabilmente e dopo un po’ ci saremmo ricordati con piacere.
Ma La legge di Murphy è implacabile e io sto tornando a casa da solo, con il sopracciglio cucito, una storia da raccontare, un finale imperfetto e una maglietta che non dimenticherò mai e che in tutto quel falso disordine mi ha ricordato che se una cosa può andare male di certo lo farà.