Chiedi chi era Janis Joplin - InEsergo

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26 Settembre 2020 - Musica

Lettera aperta alle nuove generazioni a cinquant’anni dalla morte della regina bianca del blues

Chiedi chi era Janis Joplin
 
Hai mai sentito parlare di Janis Joplin?
 
Beh, sì, probabilmente sì. In caso contrario non sarà difficile farti subito un’idea: basta compiere un giro nel web e su di lei troverai qualsiasi cosa. Leggerai che è stata la più grande voce femminile bianca del blues, che ebbe una vita disperata e piena di eccessi, che è una leggenda. Mi dirai: ma se tutte queste cose sono vere, perché ne ho sentito parlare così poco? Domanda legittima, ma per rispondere dovrei scriverti un’altra lettera. Sai, tante cose sono cambiate dall’epoca di Janis Joplin: il mondo, la musica, forse anche noi. Forse no. Torniamo a Janis.

Lascia stare certi epiteti tipo la “sacerdotessa del rock”: vanno bene per i libri di scuola (ah, a proposito, te ne hanno mai parlato a scuola?) o per raggranellare qualche click. Janis Joplin era una ragazza come ne vedi tante ogni giorno. Forse un po’ meno bella. Grassottella, vestita strana, un po’ da uomo, complessata, piena di brufoli. Pensa che una volta al campus venne addirittura votata come l’uomo più brutto. Capisci quanto sa essere crudele l’essere umano? Poi Janis era texana, di Port Arthur, paesucolo di provincia: sai quelle cittadine piccole dove la gente bisbiglia e mormora? Ecco, un posto sonnacchioso e tanto bigotto, inzuppato d’ipocrisia e conformismo. E c’era questa ragazza così, insofferente alle regole, che aveva strane idee sull’uguaglianza tra bianchi e neri (no, non potevi andare in giro per il Texas all’inizio degli anni ’60 a dire che bianchi e neri erano uguali), che voleva essere libera malgrado fosse una donna (!), che desiderava una vita conforme a ciò in cui credeva e sentiva. Ti sembra poco?
 
No, non è poco. Il mondo sa schiacciarti, deriderti, metterti all’angolo quando decidi di uscire dalle fila. E poi Janis era una ragazzina, cosa vuoi che ne sapesse di come vanno le cose? I genitori dovevano badare ai due fratelli più piccoli, lei doveva cavarsela da sola. Per questo ci voleva la musica, questa stampella meravigliosa. Hai mai avuto la sensazione che oggi la musica sia pura tappezzeria sonora, buona per il jogging o per spingere il carrello al supermercato? Sì, sì, conosco X-Factor e tutti quei programmi televisivi da dove ogni anno vengono fuori facce nuove, belle voci, canzoni da cantare.

Aspetta, però. Io parlo di musica come medicina, qualcosa che se non ce l’hai muori, perché tutto il resto diventa impossibile. Non so se capisci cosa intendo. Per Janis non poteva esserci vita senza la musica, senza salire sul palco e donare se stessa al pubblico, lasciandoci il cuore, lo spirito, le viscere tutte. Lei era sangue, lacrime, sudore e sfinimento: un talento abnorme, smisurato. Nel suo caso non c’era alcuna differenza tra finzione scenica e realtà, tra l’artista e la donna. Quando cantava non si trattava solo di lavoro, registrazione o intrattenimento. Summertime, Cry Baby, Piece of my Heart: non faceva differenza. Janis ti stava donando l’anima, la sua.  
 
Hai mai letto del principio della “rana bollita” di Chomsky? Noam Chomsky è uno splendido vecchio pazzo e rubicondo. In un suo libro parla di come una rana in pentola se ne starebbe bella tranquilla nell’acqua fresca, e che se anche qualcuno accendesse il gas e cominciasse a far salire la temperatura la rana percepirebbe quel tepore come qualcosa di piacevolmente insolito. Quandanche l’acqua diventasse più calda la rana non si spaventerebbe troppo e se ne starebbe buona buona nel suo brodino protetto. Solo quando la temperatura si facesse insostenibile la rana avvertirebbe il tutto come pericoloso e vorrebbe fuggire via. Ma ormai non ne avrebbe più le forze. E morirebbe. Bollita. Pensa che se fosse stata buttata direttamente nell’acqua rovente, con un bello scatto delle zampe posteriori la rana si sarebbe proiettata fuori dalla pentola e messa in salvo! È una metafora naturalmente, ma ti dice qualcosa? Trovi delle similitudini con quello che stiamo vivendo in questi tempi? Non andrò oltre, perché non voglio annoiarti troppo e probabilmente ti starai già chiedendo che cavolo c’entra tutto questo con Janis Joplin.
 
Ecco, vedi. Janis non sarebbe mai rimasta nella pentola. Non avrebbe barattato la sua vita con lo scenario allestito a sua insaputa da qualcun altro. Avrebbe voluto esplorare altre pentole, altre temperature, con e senza acqua. Voglio dire: sai quando incontri persone che sono vive ma è come se non lo fossero? Che ogni giorno replicano il giorno precedente, che avanzano stancamente tra il picco emotivo di un aperitivo o di una vacanza e la bassa marea del grigiore quotidiano? Janis aveva il terrore di quella roba lì, di uniformarsi agli adagi antichi, aborriva le consuetudini e la buona creanza. Era come una fiamma che doveva ardere e bruciare tutto, dentro e fuori: la libertà, la strada, le cattive compagnie. Il sesso. Si scopava chiunque le piacesse, uomini, donne, non faceva differenza se avvertiva che da un incontro fisico ne avrebbe intimamente tratto qualcosa. E poi gli acidi, l’alcool, l’eroina. Fino a morirne, naturalmente.

Le fu fatale una dose di droga, probabilmente uscita male e molto più potente; una morte imprevista che nessuno si sarebbe aspettato, proprio quando Paul Allen Rothchild (il produttore nientemeno che dei Doors) decise di credere in quella ragazza e farle incidere il capolavoro dei capolavori, l’album intitolato col suo soprannome: Pearl. Che purtroppo uscirà postumo, perché lei se n'era già andata, una domenica d’ottobre di cinquant’anni fa.

Lo so che ti starai chiedendo: ma quindi per vivere pienamente bisogna bruciare fino ad andare a fuoco? Che razza di esempio ha dato Janis Joplin? Io non voglio morire a 27 anni, ho i miei amici, le mie cose, voglio divertirmi, mica morire! Aspetta. Credo che neppure lei volesse morire. Certo, le piaceva farsi del male perché aveva questo dolore immenso che non riusciva a gestire, queste lacerazioni che ogni tanto si suturavano e improvvisamente dischiudevano tutta l’empatia, la sofferenza, il trasporto per le assurdità del mondo. Lei se ne faceva carico, nella musica come giù dal palcoscenico, e le espiava con una vita dissoluta. Ma non ne era del tutto consapevole. Oppure sì, a volte sembrava esserlo, ma non aveva ancora spalle abbastanza larghe e probabilmente non le avrebbe mai volute. Anche se si martirizzava, non anelava a essere una martire. Janis era viva, vivace, colta, amava ridere, scherzare, gioire. Chi l’ha conosciuta racconta che starle accanto fosse uno spasso, che c’era questa energia impressionante dentro di lei, come uno scoppio di vento che ti faceva barcollare. Una potenza della natura, una tigre perennemente in gabbia.

Non giudicarla. Non imitarla. Accogline la musica come un dono grande e senza tempo, falla tua quando ti ritroverai a battere il piede dietro a qualche blues trascinante dei suoi e a piangere su quella voce scabra e strozzata. Dentro ci troverai la bellezza e il delirio. L’allegria e l’amore. Il dolore. La solitudine. L’energia e la fede. Ti divertirai. Penserai. Crescerai. Ascoltandola annuserai anche la morte, ma garantisco che ti sentirai incondizionatamente vivo, caro giovane amico mio.

Per chi volesse approfondire il mondo di Janis Joplin consigliamo lo spettacolo teatrale “A Woman Left Lonely: Omaggio a Janis Joplin” di Elena Pugliese interpretato dalla straordinaria Maria Grazia Solano accompagnata dai Supershock.
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