Jane Eyre
Nel 1847 Charlotte Brontë regala alla cultura letteraria un vero e proprio capolavoro: Jane Eyre, romanzo scritto in forma autobiografica che racconta le travagliate vicende di una giovane orfana vissuta nell’Inghilterra vittoriana. È un’epoca caratterizzata dal maschilismo (che traduce gli atteggiamenti di dominanza in comportamenti di oggettivazione e mercificazione) e da una rigorosa educazione a cui le donne vengono sottoposte fin da bambine, abituate ad attenersi a un unico dogma: “sii bella e stai zitta”.
Lo studio alle donne è concesso, in particolare quello della musica, ma non viene considerato come priorità utile alla realizzazione personale, bensì come uno strumento di cui si usufruisce in maniera superficiale per far breccia nell’interesse di giovani facoltosi pronti per il matrimonio. La donna non pensa, non ne ha il diritto, poiché ogni riflessione, ogni dubbio vengono percepiti come un insulto, come una forma di disobbedienza al conformismo imperante. Ma Jane Eyre insegna che il destino di una donna, se guidata da sentimenti sinceri, è ben più alto e nobile.
Ella è generosa, caritatevole, intelligente e, nonostante l’infanzia infelice e le precarie condizioni economiche, è spinta ad agire per raggiungere il suo sogno più grande: quello di insegnare e di essere indipendente. Dopo aver trascorso gli anni della sua formazione presso il collegio di Lowood, dove ha modo di dedicarsi allo studio di diverse discipline, a diciotto anni viene chiamata a ricoprire il ruolo di istitutrice a Thornfield Hall, presso la tenuta di Mr. Rochester: un uomo di quarant’anni, noto per il suo carattere duro e autoritario. Nonostante le apparenze, tra i due si instaura fin da subito un rapporto di reciproca stima e fiducia, dovuto al modo schietto e diretto con cui i due solevano portare avanti le conversazioni. Ed è proprio la schiettezza, l’indipendenza di Jane a suscitare nel freddo cuore del suo padrone sentimenti di forte passione e amore, emozioni così intense che portano Mr. Rochester a trascurare le distanze dettate dall’appartenenza a estrazioni sociali diverse.
Ora, questa non vuole essere la sede di alcun tipo di spoiler se il vostro obiettivo è leggere il romanzo, ma se vi chiedete il motivo per cui questo libro rientri nella categoria dei must la risposta è molto semplice: Jane Eyre è indubbiamente la precorritrice del femminismo. Nel corso della storia vedrete come la protagonista sia in grado di prendere le decisioni più difficili, pur di tener fede a quella che è la sua identità: “I am no bird; and no net ensnares me: I am a free human being with an independent will” (Non sono un uccello; e nessuna rete mi intrappola: sono un essere umano libero con una volontà indipendente.).
Le sue parole riecheggiano nella contemporaneità, eppure, benchè siano state molte le conquiste sociali ottenute lungo il corso dei secoli, possiamo convenire di essere ancora lontani dallo scardinamento definitivo di quel paradigma che obbliga le donne a piegarsi a un sistema politico e sociale di tipo patriarcale. Le nostre scelte e il nostro stile di vita sono ancora soggetti allo scherno e alla disapprovazione, il nostro lavoro spesso non viene valutato secondo criteri meritocratici, per non parlare della violenza che è ancora largamente diffusa. I dati ISTAT ci dicono che in Italia il 32,5% delle donne italiane ha subito almeno una volta nella vita qualche forma di violenza fisica e sessuale.
Solitamente, chi tende a definirsi femminista viene accusato di misandria, ma il femminismo non può essere ridotto a semplice lotta tra i generi. Esso abbraccia la rivendicazione dei diritti di tutte le minoranze, di tutti quelli che si considerano gli esclusi. Se dovessimo applicare alla storia della civiltà la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico, potremmo collocare il sistema patriarcale in quello che Vico definisce lo stato selvaggio: gli uomini, spaventati dall’aumento progressivo dell’indipendenza femminile, ricorrono a tutti gli strumenti a loro disposizione, violenza compresa, per poter garantire la propria supremazia. Come se l’essere umano, donna o uomo che sia, fosse destinato a espiare una colpa legata alla sua stessa natura, caratterizzata dal bisogno di cooperare con gli altri in virtù del principio di complementarità e nel rispetto della diversità.