Il caso Majorana Pelizza
immagine tratta da: www.majorana-pelizza.it
27 marzo 1938. Il geniale fisico trentunenne Ettore Majorana scompare per sempre dalla vita pubblica per cercare conforto nella solitudine del convento della Certosa di Calci, vicino a Pisa, facendosi chiamare Padre Ambrogio. Il Vaticano acconsente e fornisce la sua tutela. Nel 1970, con la chiusura del convento, Majorana si traferisce nell’Eremo di Serra San Bruno, in Calabria, appartenente anch’esso all’Ordine certosino. Nel 1996, a novant’anni, il fisico è ancora vivo e si mostra in video e in foto, dimostrando quarant’anni di meno. Istantanee e testi scritti vengono periziati rispettivamente dall’ingegnere Michele Vitiello, esperto forense di fama internazionale, e dalla grafologa Chantal Sala, specializzata in ambito peritale giudiziario. La sentenza delle perizie è clamorosa: foto e lettere sono di Ettore Majorana, senza timore di smentita, e si tratta di attestazioni successive di molti decenni al 1938.
Sono alcune delle incredibili rivelazioni che emergono dall’inchiesta giornalistica durata ben tredici anni dell’ottimo Rino Di Stefano, storica firma de “Il Giornale” di Indro Montanelli, riportata nel libro Il caso Majorana Pelizza edito dalla One Books di Torino. Tuttavia, come già intuibile dal titolo, la figura di Ettore Majorana è solo una parte dell’intricato puzzle. Il vero protagonista dell’indagine è Rolando Pelizza, un misterioso imprenditore che passerà buona parte della vita a scantonare tra servizi segreti e fantomatici americani. Pelizza, giovane ventenne e già titolare di un avviato calzaturificio a Chiari, in provincia di Brescia, nel 1958 conosce quello che alla Certosa di Calci tutti chiamano il professore, con il quale matura nel tempo una profonda amicizia. Un’amicizia che lo induce a tornare al convento un centinaio di volte e che gli consente di apprendere i concetti di una nuova fisica. Neanche a dirlo, quel professore è proprio Ettore Majorana.
Questa parte dell’indagine giornalistica di Di Stefano, per quanto strabiliante, è ancora il meno. Da Majorana, Pelizza assimila le nozioni per costruire un’incredibile macchina, alimentata da una comunissima batteria da 12 volt e 40 watt di potenza, in grado di annichilire la materia. La prodigiosa apparecchiatura, da qualcuno ribattezzata la macchina di Dio, sarebbe in grado di produrre positroni (elettroni di segno positivo) che a contatto con la materia la convertirebbero dallo stato solido a quello di energia pura. Fantasie? Tutt’altro. Il dispositivo di Pelizza nel 1976 attira le attenzioni dell’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il quale, nel tentativo di vederci più chiaro, affida nientemeno che a Ezio Clementel, presidente del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN), il compito di verificare le funzionalità del misterioso strumento. Cinque prove, consistenti nel far perforare dal fascio di raggi emesso dalla macchina una serie di lastre di acciaio inox e alluminio a distanze diverse: tutte brillantemente superate. Il video della sperimentazione si può consultare in calce a questo articolo. Nella parte finale della sua relazione tecnica Clementel scrive: “le energie ma soprattutto le potenze in gioco si pongono aldilà dei limiti dell’attuale tecnologia”.
Anche gli americani e i belgi vogliono saperne di più del prodigioso strumento, soprattutto per studiarne l’utilizzo a scopi militari: nessuno al mondo possiede una tecnologia simile, disporne significherebbe potere assoluto. Ma Pelizza pone il diniego all’utilizzo in campo bellico, dando la stura ai guai che lo attanaglieranno per il resto della vita. Furti, sparizioni, misteriosi personaggi (del tutto assimilabili ai fantasmagorici men in black) cominciano a fare capolino mettendosi di traverso, ostacolando ogni tentativo del bresciano di indirizzare le attenzioni di governi e istituzioni nella direzione che sarebbe stata a cuore al suo mentore Majorana: intervenire sul clima e curare la Terra. La macchina infatti permetterebbe almeno altre tre fasi: ottenere infinite quantità di energia pulita riscaldando la materia (portandola a una temperatura corrispondente al 40% del suo grado di fusione o ebollizione), trasmutare la materia (trasformando qualsiasi elemento della tavola periodica in un altro elemento), traslare la materia (il passaggio in altre dimensioni e il ringiovanimento di qualsiasi corpo, animato e inanimato). Nello specifico, il volere di Majorana sarebbe stato la trasmutazione in ozono soprattutto dell’anidride carbonica in eccesso nell’atmosfera, ripristinando così le condizioni ambientali ideali e salvando il nostro pianeta dagli effetti del riscaldamento globale.
Annichilire tonnellate di scorie nucleari senza conseguenze, trasmutare qualsiasi rifiuto in altro elemento più consono all’esistenza dell’essere umano. Come scrive lo stesso Rino Di Stefano nel suo primo articolo sull’argomento, pubblicato nel 2010 sulle pagine nazionali de “Il Giornale”, “chi sarebbe in grado di gestire e controllare gli effetti di una rivoluzione industriale e finanziaria che di fatto cambierebbe il mondo? […] In pratica, tutte le multinazionali operanti nel campo del petrolio e dell’energia nucleare dovrebbero chiudere i battenti o trasformare da un giorno all’altro la loro produzione”. Non deve stupire che la vicenda di Pelizza e della sua macchina non sia mai giunta all’attenzione dell’opinione pubblica, che non siano stati compiuti quei necessari e definitivi passaggi di verifica scientifica e ammissibilità tecnica che avrebbero dovuto anzitutto ricevere il beneplacito dei più alti gradi dell’intelligence mondiale. Un complotto? Non diciamo scemenze. Semmai un normale fluire delle cose, come storia insegna.
Il caso Majorana Pelizza di Rino Di Stefano si snoda lungo le sue quasi cinquecento pagine secondo il procedere cronologico degli eventi, dal gennaio 2009 al gennaio 2022 (quando cioè Pelizza morì a ottantatré anni a causa della Covid). Il modus operandi è lo stesso che ha caratterizzato l’altro bestseller del giornalista genovese, Il caso Zanfretta, giunto oggi alla sesta edizione: rigore assoluto, serietà, profonda separazione dei fatti oggettivi, comprovati da prove certe e incontrovertibili, dagli elementi non dimostrabili ma che si collocano a corollario della complessità di una vicenda stranissima e assai contorta. Intrighi, minacce, soggetti che sembrano usciti da un film di spionaggio e, al centro di tutto, la prodigiosa macchina, più volte costruita, più volte trafugata. Quella tecnologia, così come documentata e analizzata già nel 1976 dal professor Ezio Clementel, oggi ci servirebbe come il pane. Ma sarebbe troppo bello, troppo idilliaco e anche troppo semplice: guai a modificare lo status quo di chi sa e quello di chi non deve sapere.