La felicità è un sistema complesso - InEsergo

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04 Maggio 2022 - Cinema

La distruzione creativa nel film di Gianni Zanasi

La felicità è un sistema complesso
  
I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni aziendali necessarie e gli aggiustamenti nell’occupazione. Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di ‘distruzione creativa’, cioè che alcune imprese si restringano o chiudano per far posto a nuove aperture”
Gruppo “G30”, 14 dicembre 2020

“Sono fiero del mio lavoro. Convinco dirigenti irresponsabili a mollare. Gente che al massimo può organizzare un torneo di playstation... sono cavallette... e io li faccio fuori”
Enrico Giusti

Valerio Mastandrea ha lo sguardo malinconico, gli occhi sempre un po’ persi. Chi ama il cinema italiano lo sa bene. In La Felicità è Un Sistema Complesso di Gianni Zanasi (2015) interpreta Enrico Giusti, un signore che fa un lavoro speciale: convincere i titolari d’azienda a mollare. È l’unico e il migliore. Non è così facile: fare gli imprenditori comporta anche dei vantaggi. Eppure, il suo compito è arrivare al momento buono, spietato e gentile, sagace come nessun altro nell’intrufolarsi tra le crepe interiori della sua clientela. Gente che vuole cambiare vita, che non sa come spendere i soldi, che vuole godersela. Oppure che, semplicemente, non tiene di conto le sue responsabilità, ciò che un’impresa rappresenta per migliaia di famiglie. Andrebbe male comunque, Giusti ne è convinto. Si tratta solo di accompagnare il destino, edulcorarlo, renderlo meno infame di quanto appaia. La realtà è più complessa: i datori di lavoro Carlo (Giuseppe Battiston) e il suo psicotico padre (Teco Celio) ci lucrano su, dissanguano buona parte delle transizioni finanziarie legate ai cambi di proprietà, quando si celebrano i funerali delle aziende.
 
Il film di Gianni Zanasi è un ossimoro, un paradosso. Il soggetto è talmente sgangherato che non sembra verosimile. Per di più il grande e sottovalutato regista opta per una chiave narrativa onirica e permeata di allucinazioni psichedeliche: un taglio visionario, corroborato da una colonna sonora meravigliosa che va a spasso tra le decadi, traboccante di epica ridondanza. E’ il cantautore romano Niccolò Contessa de I Cani a occuparsene: brividi e ancora brividi quando Enrico Giusti e l’imprevista Achinoam (Hadas Yaron) levitano sulle note di In a Manner of Speaking dei Nouvelle Vague, i Rolling Stones più fervidi e creativi (non ancora orfani di Brian Jones) musicano con She’s a Rainbow un’improbabile partita di rugby con il Giusti vittima sacrificale, You Showed Me dei Byrds (nella versione dei Turtles) fa da corollario al definitivo crollo interiore del protagonista, i Dead Can Dance sugellano con la loro Children Of The Sun e il conforto di una fotografia diafana l’ammassamento degli operai davanti ai cancelli della Lievi Group.
 
In effetti a Giusti l’ultimo incarico gira male. Un’azienda da più di 4000 dipendenti, la Lievi appunto, che rimane orfana dei suoi titolari deceduti sul colpo in un incidente stradale. Un lascito improponibile per i legittimi eredi del patrimonio di famiglia: uno zio e due ragazzini di 13 e 18 anni. Sembra il presupposto ideale, la condizione perfetta per un killer che deve solo premere il grilletto. Ma Zanasi, da filosofo e sognatore qual è, non ci sta e sobilla l’intervento di un elemento esterno, di quel qualcosa che l’intellighenzia, i plutocrati del potere non mettono a bilancio: la dimensione umana. È uno squarcio su un’idea di mondo a cui vogliamo aggrapparci, che contempla la vastità rispetto ai puri calcoli, paventando l’eterogenesi dei fini in un risiko il cui obbiettivo è fare strame della dignità individuale e collettiva.
 
Sembra una mera invenzione cinematografica, eppure cinque anni dopo l’uscita al cinema de La Felicità è Un Sistema Complesso, il Gruppo dei Trenta o “G30” (organizzazione transgovernativa composta da leader accademici e finanziari di tutto il mondo), del cui comitato esecutivo il premier Mario Draghi è responsabile, ha sdoganato con lo stralcio citato in esergo i miserabili magheggi di cui Zanasi fantasticava. Distruzione creativa (o creatrice se preferite), nessun sostegno statale alle imprese incapaci di resistere loro sponte agli stravolgimenti finanziari cagionati dalla pandemia (per meglio dire dalle misure adottate per contrastarla) accompagnandole di fatto al patibolo, agevolazioni invece per quelle che virtuosamente emergono dal magma neoprimordiale. La conseguente transumanza di lavoratori e professioni per lorsignori sarebbe solo un male inevitabile. Perché i prelati del potere ragionano così, non hanno musica nelle orecchie, umanità nei cuori, sono gusci vuoti dagli sguardi torvi, accecati dalle lusinghe del mercato globale. Quel senso di superiore ineluttabilità che nel film di Zanasi viene definita Grande Purezza, definitiva e inoppugnabile.
 
Per questi motivi La Felicità è Un Sistema Complesso è uno di quei film imprescindibili. Apre squarci impensati, si presta a piani di lettura molteplici ed è recitato divinamente. Zanasi deposita il classico granello di sabbia nel meccanismo, altera gli equilibri, intravede un’alternativa. Si direbbe la messa in opera di quelle che Wilhelm Wundt definiva conseguenze non intenzionali, il capitolo imprevisto, la lettura a tinte iridescenti di un mondo sempre più barbaro e postumano. Guardatelo, perdetevici dentro. C’è il rischio di finire come Enrico Giusti su uno skateboard giù a perdifiato per una strada scoscesa di montagna, nel giorno zero di una vita qualunque. Ogni tanto occorre fare tabula rasa. Ne vale la pena.


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