E ora?
“Per noi che siamo solo di passaggio”
Franco Battiato
Gli sono seduto di fronte e lo ascolto mentre mi rende partecipe di un fatto accaduto poche ore prima. Per questioni di spazio e di contenuto, ritengo superfluo svelare in questa sede le circostanze che hanno portato al nostro incontro. Vi basti sapere che ci siamo appena conosciuti nella città che ospita entrambi per una manciata di giorni. Doveroso è invece un accenno a ciò che può accadere, in determinate circostanze, a viaggiatori che condividano un breve tratto di strada o un momento di pausa: accade appunto - verbo che sottintende una passività del soggetto, un fluire spontaneo e non voluto - che ci si apra all’altro come mai prima, trovandosi a esprimere la versione più sincera, e sovente inesplorata, di sé stessi. Tra i principali motivi, squisitamente inconsci, di questa comunione c’è la probabilità di non vedersi più, quindi liberi dal rischio perpetuo di aspettative reciproche, doverose abitudini, periodiche incoerenze e goffe diplomazie.
Il mio interlocutore parla con voce bassa e sincopata che mette di frequente in stand-by, come se stesse raccogliendo suggerimenti da chissà dove e da chissà chi. Ha una t-shirt color nebbia e nelle mani vene affioranti come fiumi in piena o radici secolari. Non è vecchio, né giovane; appare semmai in quell'età traballante tra la domanda e la risposta.
Riporto qui il suo racconto e le sue intuizioni per come li ho ricevuti durante la nostra chiacchierata, chiedendo alla mia memoria di essere il più possibile fedele ai contenuti, al netto di una rielaborazione della sintassi, per mero gusto narrativo. Ad ogni modo qualsiasi incongruenza, omissione e ghirigoro stilistico, sono da addebitare al sottoscritto.
“Mi spiace, con quello zaino non può entrare”.
Mi acciglio e chiedo spiegazioni all'occhio spento che mi sta di fronte.
“Lo zaino è troppo grosso”, sentenzia l’occhio spento.
“Ma non siamo in aeroporto!”
“Devo far rispettare le regole. Se vuole entrare lo lasci in albergo o in un deposito”.
Rimango incredulo e irrigidito dal freddo e inespressivo rigore di quell'automa umano, probabilmente assuefatto dalla staticità della sua mansione e dall'afa.
Provo ancora a ribadire, argomentare, far valere le mie ragioni di turista, che si sbriciolano contro un’ottusità di granito.
Uno sbuffo di resa mi abbassa le spalle e m’allontana con ampie falcate dalla meta di giornata.
“E ora?” La frustrazione, seppur circoscritta e oggettivamente poco importante, spinge prepotente sulle ossa del cranio come una massa caotica e rumorosa.
Annebbiato, raggiungo il chiaroscuro dei portici della grande Piazza, per poi voltarmi e dare un’ultima occhiata. Il mastodonte antichissimo, elegantissimo e assoluto con quelle cinque bocche arcuate, pare sganasciarsi alla faccia mia.
E lo vedo ridere così di gusto che mi metto a ridere pure io.
Tolgo lo zaino dalle spalle e mi accomodo per terra a gambe incrociate, con lo sguardo sempre rivolto laggiù, alla Basilica di San Marco, ponendomi la domanda più scomoda e irritante che un turista (incline all'accumulo e meno all'essenza) possa farsi.
Perché voglio entrarci?
Se il motivo è la sua sacralità, allora è davvero necessario spogliarsi di tutto il superfluo e attraversarlo leggero, sia fisicamente sia metaforicamente, in uno spazio di raccoglimento interiore che non “visita” il luogo ma lo “vive”.
Se il motivo è l’opera artistica, il discorso non cambia: l’Arte, in quanto atto creativo e di profonda comunione con l’inconoscibile, si medita senza altri pesi se non quelli che possono gravare sul cuore; gli stessi che con ogni probabilità aiutano ad aprirsi e talvolta ad annodarsi la gola davanti alla bellezza.
Se il motivo è la luce, che vibra sulle minuscole tessere vitree dei mosaici dorati, annullando qualsiasi pesantezza strutturale ed espandendo lo spazio fino alla sua rarefazione, non possono che essere libere le spalle e rarefatte le distrazioni.
Il mio interlocutore argomenta con equilibrio, premuroso di mantenere il dialogo, che io assecondo con riconoscenza, anche se interessato molto di più a ricevere. Da un semplice aneddoto di un’aspettativa frustrata, il discorso si amplia e va a toccare temi d’ampio respiro, come Tempo e Spazio, difficilmente riassumibili in poche righe. Chiedo quindi supporto alla Dea della sintesi e al vostro intuito, per colmare inevitabili mancanze e perdonare eccessive semplificazioni.
Il divieto apparentemente illogico e ottuso di uno zaino troppo ingombrante viene sublimato in metafora della propria vita, molto più soggetta alla forza di gravità e alla mancanza di spazio (interiore) che alla mancanza di tempo. Non è il tempo il sovrano, ma solo il contabile del regno con ambiti e compiti precisi. Una convenzione civile di cui si nota ben presto la relatività: "fai presto", "è tardi", "ormai" sono riferimenti a un qualcosa che l'infanzia tenta di misurare allargando le braccia: “Ma tardi quanto? Così?”
Concetto civilmente imprescindibile ma non innato e tutt’altro che onnipresente, il tempo ha dei limiti e un’identità confusa, poiché tutto quello che noi percepiamo come sua evidenza è in realtà la misura della distanza da un punto a un altro, una dilatazione e contrazione, una lunghezza d’onda o un cambiamento di stato: rotazione planetaria, lancette dell’orologio, sabbia nella clessidra, metronomo, battito cardiaco, invecchiamento.
Il sovrabbondante spazio dato al tempo è causa di claustrofobie mentali quali ansie, preoccupazioni, rimpianti e speranze. La nostra tendenza all'accumulo ci frustra nell'impossibilità di possederlo. Non abbiamo mai tempo perché, in realtà, servono spazio e leggerezza per una scelta consapevole, per accogliere un limite o una critica, per aggirare un ostacolo, per abbracciare, contemplare e perdonare, per allontanare e rimpicciolire, per riempirsi semplicemente d’aria.
Chiosa timidamente il compagno di cicchetti e calici d’ombra, sorseggiata nella città stretta che riflettendo vibra e si sdoppia: la nostra difficoltà nello stare “qui e ora” pare essere tutta… qui.
E ora?