E' mare il Mediterraneo?
Due grandi passioni sintetizzano un amico. La prima è annidarsi su scogli inondati d’alba, mentre il Mar Ligure gli solletica le dita dei piedi e l’esca nell’amo l’appetito dei pesci. L’altra è immergersi nei boschi alpini della Val Corsaglia, scandagliando fondali di foglie secche e terreni umidi in cerca di funghi.
Mio suocero conosceva un tale che aveva due grandi qualità: era uno dei pescatori più abili ed esperti di Spezia e anche un ottimo cuoco, il cui piatto forte si narra fosse - a detta di chiunque lo avesse assaggiato - il minestrone alla genovese, la cui ricetta prevede solo ingredienti di terra.
Un giorno andai a Trieste. La mia meta non era il molo Audace, né il Miramare, ma lo storico Caffè San Marco, riparo di intellettuali e letterati. E anche se nel Santo risuona la vicina e acquatica Venezia, attraversarne la soglia è come entrare a Vienna.
Persino l’autore che andavo cercando, nato sulle sponde mediterranee e con un tavolo riservato da decenni nel locale, ha dedicato allo studio della Mitteleuropa gran parte delle sue opere letterarie. Ero lì grazie a lui, Claudio Magris, con il libro che era diventato cocchiere del mio sguardo sul mondo dietro l’angolo: Microcosmi (Ed. Garzanti, Premio Strega 1997). Il primo capitolo parla proprio del “viennese” Caffè San Marco. In copertina il bacino salmastro di Comacchio, sulla sponda opposta dell’Adriatico.
Il Mediterraneo sa di essere un enorme mosaico di colori complementari e micro-paradossi?
Pronunciare nome e cognome di Predrag Matvejevic, letterato e saggista croato, pare unire due elementi naturali contrapposti: il suono Predrag sembra pietra aguzza bagnata dalla spuma salata, il cui sibilo di risacca accompagna lo sciogliersi delle sillabe in Matvejevic. Nel suo Breviario Mediterraneo (Ed. Garzanti, 1991) scrive: un mare circondato da terre, una terra bagnata dal mare. L’affermazione non è semplice filastrocca perché Matvejevic è maestro nel dosare le parole e inserire significati profondissimi nella cruna di un ago. Scorgerli è una libera scelta. E puoi anche scegliere di assopirti con l’ondeggiante filastrocca.
Se poi arrivasse un etimologo a disturbarti il dormiveglia adagiato sul frinire del meriggio, direbbe che effettivamente il nome deriva dal latino mediterraneus, mare in mezzo alle terre. Ma l’analisi letterale pare esagerare i paradossi: medius (medio) e terra. 1. ant. Di regione lontana dal mare, tutta compresa entro terra, sinonimo quindi di continentale, contrapposto a marittimo (Treccani).
Vico definiva la Mesopotamia come la terra più mediterranea di tutto l’universo abitabile.
Andare a fondo alle cose spesso raschia il granito delle certezze e le confonde. Non è detto che sia un male.
Quindi, fin dove arriva il Mediterraneo?
C’è chi dice fin dove cresce l’Ulivo. Chi invece lo vede solo come una distesa d’acqua, lo confina ai colli di bottiglia: Gibilterra a ponente, Suez a sud-est e il Bosforo a levante. Ma l’abbacinante Lisbona, il cui fiume Tejo addolcisce l’Atlantico, ha la stessa luce che accende Marsiglia e Genova al passaggio dei venti da nord. La lingua portoghese ha cadenza ligure, mentre le melodie del Fado quel compiacimento nel dramma, tipico dei paesi del Mezzogiorno. A Dronero, ai piedi delle Alpi Cozie, si svolge da oltre due secoli la Fiera degli Acciugai e le acciughe sono l’ingrediente principale della Bagna Cauda piemontese.
Quando la geografia della vita sfugge alla geografia politica, mi sorride il cuore.
Nello splendido libro La leggenda dei monti naviganti (Feltrinelli Ed., 2007), il giornalista, scrittore e viaggiatore Paolo Rumiz parla dell’Italia alpina e soprattutto appenninica, percorrendo da nord a sud l’intera spina dorsale della penisola, senza mai scendere sulla costa. Dà voce a quell’Italia (potremmo anche definirla: quella parte di Mediterraneo) dimenticata da istituzioni e politica.
Ma se l’entroterra non è visto, la costa è invasa da ondate stagionali di turismo consumistico che sgrana rosari a Santa Frenesia. Il sottoscritto non ne è esente e quando se ne accorge non sdrammatizza e davanti a una bibita fresca s’acquieta ma, peggiorando l’umore, davanti a una bibita fresca s’arrovella, peccatore indegno di Beata Flemma.
La fede inconsapevole continua a rendere colpevoli, sul Mediterraneo.
Quel particolare tipo di transumanza turistica va al mare con l’illusione di sciacquarsi lo stress dalle spalle e staccare la spina. Quindi per spegnersi. Mare che in realtà è spiaggia, perché è sempre meno conosciuto e rispettato e per tale motivo fa paura (anche agli yacht). Si dice che le tempeste che arrivano dal mare durino di più e siano più violente. Ci dicono che pericolose minacce arrivano dal mare… e hanno ragione. Ma è più facile puntare il dito su bersagli deboli, che su vere potenze col coltello economico e strategico dalla parte del manico: Turchi insediati a Tripoli, Russi in Cirenaica e Cinesi ad Atene.
Per quanto appaia illogico, l’Italia non è un popolo di naviganti. Lo era prima che si unisse, lo erano le Repubbliche Marinare, Stati a sé.
Un mare circondato da terre, una terra bagnata dal mare… Che l’identità sia un amore estivo, sul Mediterraneo? L’impossibilità di accettarlo allatta le guerre (anche interiori).
Lo scrittore e navigante Simone Perotti (da velista dimora sia in Appennino che sulla costa), da anni porta avanti una mappatura del Mare Nostrum attraverso il Progetto Mediterranea: spedizione nautica, culturale, sociale e scientifica. Nel 2020 ha promosso l’iniziativa “Una bandiera per il Mediterraneo”, che includesse tutte le sponde e tutti i popoli che in esso si affacciano.
Perotti e la sua ciurma sono l’evidenza che qualcuno con le idee chiare e la bussola ben schermata da condizionamenti magnetici ancora c’è.
Marta Musso, giovanissima biologa ligure, è stata nominata “Donna di Mare 2022” per il suo progetto di divulgazione scientifica itinerante Possea. Sua missione è raccontare la vita del mare ai bambini partendo dal quasi invisibile plancton, vero termometro dell’immensa distesa blu. Il piccolo, essenziale per la salute del grande: progetto in cui pescare metafore preziose.
Quando ero poco più che ventenne, un mio coetaneo mi raccontò il suo viaggio a Ibiza. Partì in inverno e tornò in primavera. Voleva prendersi tutto il tempo per capire se ci fosse altro rispetto all’unica narrazione dell’isola che continuava a ricevere da più fonti. La immaginava come un’enorme palla stroboscopica danzante, con lingue di sabbia vomitanti alcol e ormoni. Un’isola notturna esistente solo grazie all’estate, dove il giorno non serviva, se non per sdraiare i pochi sensi rimasti sulla spiaggia. Nulla di male in questo, ma possibile fosse tutto qui?
Prima che li vedesse da sé, nessuno gli aveva mai menzionato i mulini a vento sulle colline, il fascino rurale e i mandorli (di cui ne ammirò, grazie alla stagione, la fioritura), i luoghi comuni sciorinati dai residenti nei bar e nei mercati. Bevve anche la noia di pomeriggi annacquati. Ma la noia di uno che non è lì per staccare la spina, permette al luogo di sedimentare.
La curiosità, quando è pura, non sceglie gli occhi altrui.
Il mio periplo nei ricordi e nei concetti per il momento getta l’ancora.
Il risveglio (quando avverrà) forse ci dirà se il Mediterraneo sia davvero un confine geografico o un’infinita geografia di percezioni.