Due suoni
Non importa quanti anni abbia, non faccio caso al tempo che scorre; preferisco focalizzare l’attenzione su alcuni piccoli, apparentemente insignificanti particolari.
Anche io ho una voce, stridula, sommessa, prolungata. Il tono dipende dai momenti, dalle circostanze.
So molto di voi, delle vostre vite; vi osservo di soppiatto arrivare da lontano, dall’incedere dei passi riesco quasi a percepire la vostra indole. La mia natura è vivere nell’ombra, fa parte della mia routine. Il fatto che non possa muovermi da qui non ha così importanza, non posso farlo da quando un elettricista mi ha installato. Alle volte lo vedo ritornare, specie quando i condomini non sentono più la mia voce; vanno nel panico, non pensavo di essere così indispensabile. Mi capita di sentire il mare in lontananza, soprattutto quando sceglie di urlare a perdifiato.
Vorrei dirgli quanto sia musicale quel fragore, ma non ho mai visto le onde incresparsi; ho solo sentito parlare della loro magnificenza, in fondo è come se le vedessi ed è meraviglioso. Durante il giorno, invece, vengo travolto da un frastuono indicibile che occulta persino i miei pensieri più nascosti e la poesia viene meno.
Accanto a me c’è un portone di legno. È rigato, avrà preso anche dei calci, è stato marchiato dal piscio dei cani, dalla pioggia, dal fato, ma è ancora lì. Siamo in simbiosi da circa quarant’anni e, alle volte, parliamo nella nostra lingua, fatta di vento, sibili, infrasuoni che nemmeno uno strumento tecnologico riuscirebbe a percepire.
Ieri è passata una ragazza. Inizialmente ha lanciato uno sguardo furtivo al portone, dopo pochi istanti ha schiacciato uno dei miei pulsanti ed è stato in quel momento che l’ho vista per la prima volta. Ricordo ancora il nome, sapeva di musica, era stupenda. L’ho contemplata in religioso silenzio per pochi istanti che sono sembrati un’eternità. Un attimo dopo è sparita, inghiottita dall’oscurità dell’atrio del condominio. Non l’ho più rivista per un tempo che mi è sembrato interminabile; infine è tornata sui suoi passi sbattendo violentemente il portone, imprecando di tutto. Ha lasciato una scia profumata che è rimasta nell’aria: sapeva di rottura, qualcosa si era reciso. Avrei voluto parlarle, dirle la mia, ma è stata una sortita fugace e nessuno conosce davvero la mia voce. Sono considerato un semplice congegno elettrico senza anima, un circuito integrato saldato alla buona.
Ieri ha piovuto tutto il giorno, una vera e propria tempesta di acqua ha inondato la città, con le conseguenze che potete bene immaginare. Sono rimasto spento per parecchie ore, un mutismo indotto, coatto. Ma, dal mio cono ottico, ho potuto intravedere tante cose, mentre la pioggia sporcava le strade; fuoriusciva dai tombini con una violenza inaudita, trasfigurandosi in fango, non era una pioggia purificatrice, quanto prepotente e disgregante. Ho sentito delle voci questa mattina, non lasciavano presagire nulla di positivo. Avevo intuito perfettamente: mi considerano obsoleto, pronto a essere sostituito. I condomini si lamentavano del mio precario funzionamento, forse è il momento di farsi da parte.
Stacco e chiudo.