Detenuto, in fondo
“E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla”.
Giovanni Pascoli, Il Tuono
Rimbomba in un lungo e spoglio corridoio qualsiasi passo e il gelido schiaffo di sbarre che si chiudono. Rimbomba il luogo e rimbomba la fonte del frastuono nel cranio di ogni guardia e di ogni detenuto. Nel film Ariaferma (2021) il carcerato Lagioia (Silvio Orlando) si rivolge all’agente Gargiulo (Toni Servillo) con questa affermazione:
• È dura stare in carcere, eh?
• Tu stai in galera. Io no.
• Ah sì? … Non me n’ero accorto.
E poi ancora, in un altro momento, in cui i due si trovano a discutere sulla compassione:
• Ispettò, cos’è, non riuscite ad ammettere di aver avuto gli stessi sentimenti di un detenuto?
• Lagioia ma che cazzate stai dicendo. Io e te non abbiamo niente in comune. Io la sera quando metto la testa sopra il cuscino sono sereno.
Alla fine di entrambi i dialoghi è come se rimbombasse un assordante silenzio. Della loro vita si sa quasi nulla mentre i ruoli sociali di buono e cattivo, così netti e assoluti, sembrano vacillare. Vacillo anche io al rimbombo di quel silenzio: tutto sembra essere un dialogo interiore, tra me e me. Il perché non lo capirò subito.
Nei giorni successivi la quotidianità sfilaccia l’intensità del film, i cui sedimenti però decantano sul fondo. Dall’inverno all’autunno i mesi passano come uno scroscio di acqua tra le dita e mi ritrovo, in questo fine settembre, a leggere la presentazione tanto breve quanto efficace di una nuova uscita discografica: Parchman Prison Prayer - Some Mississippi sunday morning (Glitterbeat Records, 2023) che parafrasato in italiano potrebbe suonare così: le preghiere di una domenica mattina nella prigione Parchman Farm, Mississippi. In quelle poche righe vengo a sapere l’essenziale: l’album è stato registrato una mattina di febbraio di quest’anno in presa diretta dal produttore Ian Brennan (documentarista di musiche ai margini), durante la messa domenicale nella cappella del carcere. Le voci e gli strumenti sono quelli dei detenuti che intonano spirituals tradizionali e sporadiche nuove composizioni. L’immagine in copertina suggerisce di fare silenzio e spazio dentro più che intorno, prima di iniziare l’ascolto.
Poi l’ascolto inizia.
“Cos’è, non riuscite ad ammettere di aver avuto gli stessi sentimenti di un detenuto?”
Può un’interpretazione canora mostrare l’invisibile? Dentro ciascuno di noi quante verità ci sono? Cosa penso davvero di chi è detenuto? Che fottuto potere ha la musica?
A riguardo ho idee vaghe che tengo per me, ma una cosa vorrei condividerla: spesso mi sono sentito prigioniero: dei miei lati oscuri, della timidezza e del timore, dei legami e delle relazioni, del lavoro e dei doveri, delle convinzioni, degli imprevisti e del tempo. La differenza tra le due carceri, interiore ed esteriore, è tale che paragonarle suona come un insulto. Allora perché a volte (più volte) mi sento (ci sentiamo) in carcere? Perché ci permettiamo di usare, di percepire, lo stesso sostantivo? Cosa ci accomuna?
Dopo gospel a cappella e blues genuini come un frutto selvatico, arriva la sesta traccia, la sola a cui è stato aggiunto un effetto riverbero. Voce di profondità abissale rimbomba ossessivamente, come su pareti spoglie, un’unica frase: Solve my need. Preghiera universale alla base di ogni Credo; il senso di ogni sofferenza e di ogni reazione. Il resto aggiungilo tu…
… Poiché m’offendo
Solve my need
E faccio la vittima
Solve my need
Poiché non ho pazienza
Solve my need
E in lotta perenne
Solve my need
Poiché troppo docile
Solve my need
E spento dall’abitudine
Solve my need
Poiché giudico e mi giudico
Solve my need
E inietto sensi di colpa
Solve my need
Poiché ho ragione e ho torto
Solve my need
E mi consumo nel rancore
Solve my need
Poiché mi sento in prigione
Solve my need
E fuggo appena posso
Solve my need
Solve my need
soddisfa il mio bisogno
ma quello vero
che non so vedere
che non voglio vedere
detenuto
in fondo.
“Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla”.
Quand’è che ho perso l’innocenza,
eh mamma?