La condanna del politicamente corretto
“La neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo le possibilità di scelta”
George Orwell, “1984”
Tutti conosciamo almeno in parte il testo di Alla fiera dell’est, la celeberrima canzone-filastrocca del cantautore Angelo Branduardi. Nel 1977 rimase per trentasei settimane nelle classifiche italiane e con il 33 giri omonimo il nostro “menestrello” vinse il premio della critica discografica; l’anno successivo furono stampati i vinili per il mercato francese e inglese e sarebbe stata riconosciuta a Branduardi la credibilità di star internazionale. All’epoca della pubblicazione chi avrebbe mai ipotizzato che 44 anni dopo, durante uno show televisivo sulla TV di stato, ci sarebbe stato bisogno di prendere le distanze dalla frase “E venne il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto”? Dopo aver ascoltato l’evoluzione del testo che ricorda tanto una matrioska, a chi verrebbe da picchiare un cane? Un testo iconico di un Artista storico della canzone italiana può fungere da veicolo di violenza?
Brown Sugar dei Rolling Stones non è più nelle scalette della band dopo essere finita nel mirino del “politicamente corretto” per via del testo e dei riferimenti alla schiavitù. Il brano è stato suonato per l'ultima volta a Miami il 30 agosto 2019 dopo che era stato incluso in tutte le scalette dei concerti della band britannica dal 1970 in poi. Si parla di schiavi africani deportati a New Orleans, si allude al rapporto sessuale tra un maschio bianco e una donna nera ma anche alla metafora della tossicodipendenza come schiavitù.
Nel 2019 nel teatro Compagnietheater di Amsterdam è andata in scena una versione politicamente corretta del Flauto Magico di Mozart commissionata dalla regista Lotte De Beer, dopo aver “scoperto” che il capolavoro di Mozart conteneva espressioni razziste e misogine.
Ha ragione di esistere questa volontà di ricercare il malevolo artistico in testi che hanno fatto la storia e contribuito a delineare il nostro passato come fotografie senza pellicola?
Tutto si colloca sotto la bandiera del “politicamente corretto”, al centro di un acceso dibattito in questi ultimi tempi. Una bandiera che ha iniziato a sventolare negli Stati Uniti intorno agli anni ‘30 del Novecento, per assumere dimensioni significative soprattutto dagli anni ‘80, quando si riuscirono a sradicare delle consuetudini linguistiche ritenute offensive nei confronti delle minoranze. Fu proprio allora che, ad esempio, il termine “afroamericano” sostituì nigger, “negro”.
Ebbene, possiamo condannare e censurare qualsiasi testo o pensiero formatosi in periodi in cui (purtroppo) la coscienza collettiva predicava la schiavitù e caldeggiava la discriminazione basata sul colore della pelle? L’America un tempo era fortemente discriminatoria, razzista: ovviamente tutti condanniamo la schiavitù e il razzismo, ma è fondamentale distinguere l’ambito sociale da quello prettamente artistico, ponendo luce sul contesto e sul fatto storico.
Anche Aristotele potrebbe esser considerato sessista in base a questa distorsione del pensiero. Se poniamo Aristotele fuori dal suo ambito temporale è facile ottenere l’immagine di un uomo che, per quanto geniale, veicolasse messaggi a favore della schiavitù e contro la parità di genere. Il filosofo è semplicemente vissuto nella Grecia antica, circondato da schiavi e donne rinchiuse nei ginecei: si esprimeva quindi in linea con la società del suo tempo e con quanto vedeva quotidianamente. Sarebbe aberrante analizzarlo per queste posizioni mettendo altresì da parte l’originalità della sua riflessione e delle intuizioni, che, come sappiamo, stanno alla base del pensiero occidentale.
Nella primavera del 2021, mentre erano ancora in corso i vari lockdown attuati con metodologie liberticide che sembrava fossero l’unica strada per salvare la nostra vita biologica (distruggendo parimenti quella interiore e spirituale), al Parlamento Europeo veniva presentato il glossario del linguaggio sensibile per la comunicazione interna ed esterna da parte del personale. Tutti, dai funzionari ai politici, ai portaborse, sono stati invitati a prendere visione delle raccomandazioni linguistiche utili a trattare correttamente temi sensibili quali disabilità, LGBTI, etnia, religione, in modo da usare le sostituzioni previste dalle linee guida. I termini ‘padre/madre’ vengono così sostituiti da genitori, concetti biologici come ‘maschio/femmina’ diventano sesso assegnato alla nascita, ‘cambio di sesso’ diviene transizione di genere, ecc.…
L’arte si nutre del “politicamente scorretto” e il rischio, cominciando a fare una revisione a ritroso su quanto prodotto nel passato uscendo dal merito dell’opera artistica, è che si arrivi alla naturale determinazione che ben poco possa essere salvato.
Il “politicamente corretto” invece, inteso come visione oggettiva della realtà, induce a criminalizzare qualsiasi forma di dissenso agendo sul senso di vergogna, di inadeguatezza di chi si esprime in maniera libera e non reverenziale rispetto alle regole.
Accettare una forma di comunicazione e categorizzazione che si basa sulla “cultura della vergogna”, promuovendo un atteggiamento censorio di omologazione, non è altro che l’anticamera di ciò che Ray Bradbury immaginava nel suo romanzo distopico Fahrenheit 451, ovvero la temperatura alla quale bruciano i libri in un futuro oscuro dove non è più neppure concesso leggere.
In questo scenario la democrazia rappresentativa non ha più spazio né senso, perché non c’è più nulla da discutere, non ci sono che due modi di fare le cose, quello giusto e quello sbagliato, e gli unici che possono indurci a fare la scelta giusta sono i “professionisti”, gli esperti del settore, gli “scienziati” competenti nei vari specifici ambiti. Ovviamente con professionalità scelte dal potere. L’economia deve essere gestita dai finanzieri poiché quando discettano di soldi sanno di cosa stanno parlando. I medici devono gestire la politica sanitaria e chiunque contraddica le loro decisioni dovrà essere zittito con tutti i mezzi.
Ci dovrebbe far riflettere come oggi sia limitata la libertà di esprimersi di un artista, una star mondiale della chitarra come Eric Clapton, il quale nelle sue ultime produzioni (il singolo This Has Gotta Stop con Van Morrison) ha bocciato i lockdown e le opprimenti politiche mondiali ritrovandosi immediatamente alle costole lo stuolo dei fact checkers. Tali pseudo giornalisti, il cui unico scopo è imporre la visione unica e demonizzare chi la pensa diversamente, hanno prontamente ripescato alcune infelici dichiarazioni pronunciate dal musicista nel 1976 durante un concerto a Birmingham. Peccato che Clapton avesse più volte fatto ammenda riguardo a tali affermazioni, dichiarandosene imbarazzato e disgustato. Tutti sappiamo della profonda amicizia che legava Clapton a B. B. King, del suo amore per il reggae, della sua devozione nei confronti del blues: indizi che ci raccontano una storia diversa, apparentemente inconciliabile con l’idea di un uomo razzista e fascista.
Viene inevitabilmente da chiedersi se sia questa la società che davvero vogliamo, una società che ci impone cosa è giusto pensare e cosa no, in cui tutto viene filtrato dal “politicamente corretto”, che legittima comportamenti sessuali, gusti letterari, il modo di parlare, di vestirsi, di scrivere. Una società in cui non si può più dire nulla, in cui il bigottismo censura l’arte e il moralismo mortifica la libertà d’espressione. Stiamo diventando vittime di un perbenismo linguistico che controlla e omologa le opinioni? Questo vogliamo?