Le meraviglie della comunicazione empatica
“Nessun uomo è una monade affettiva, solo sulla terra, ma la propria esistenza e identità acquista significato attraverso la relazione con gli altri: e quindi, non esiste un essere umano, ma esiste una persona e qualcun altro”
Donald W. Winnicott
Perché non mi ascolti?
Quante volte abbiamo rivolto questa domanda ai nostri figli? E quante volte loro l'hanno rivolta a noi genitori?
Prima di provare a riflettere sulle difficoltà comunicative e su ciò che "aliena dalla vita" (per usare un’espressione usata da Marshall Rosemberg, ideatore della comunicazione nonviolenta) vorrei soffermarmi sul verbo ascoltare. Cosa significa davvero ‘ascoltare’?
L'ascolto potrebbe sembrarci un'azione naturale ma, se pensiamo alle nostre difficoltà comunicative, possiamo comprendere in realtà quanto esso sia facile e difficile allo stesso tempo. Infatti, ‘ascoltare’ non significa solamente udire ciò che l'altro sta dicendo.
Generalmente, quando ascoltiamo lo facciamo in modo passivo: per ricercare consenso, dare approvazione oppure offrire con impazienza il nostro punto di vista e portare l’altro dalla nostra parte, senza essere veramente interessati a ciò che sta condividendo con noi. Siamo perciò abituati a interpretare ogni feedback che riceviamo come una critica e un’accusa personale, mettendoci solitamente in una posizione di difesa o di attacco a nostra volta. Ciò che ci interessa è solamente sottolineare chi ha ragione o torto.
Invece, l'arte dell'ascolto richiede presenza, accoglienza, consapevolezza ed empatia.
Quando ascoltiamo veramente per prima cosa cerchiamo di mettere in secondo piano quel "bla-bla-bla" che abbiamo nella testa e che solitamente ci distrae e non ci permette di sentire con attenzione ciò che l'altra persona sta cercando di condividere con noi. Tale intenzione, ovvero il perseguire una connessione attenta e consapevole, aiuta a entrare a far parte di quel dialogo circolare in cui ci si sintonizza sull'altro, sui suoi sentimenti e bisogni. Nell’ascolto empatico si fa da specchio e si supporta l’altra persona a mettere in luce ciò che ha veramente a cuore. Questo ‘essere di rimando’ con empatia, senza giudizio e senza la fretta di offrire risposte, genera un dono straordinario: aiutare l’altro a scendere in un territorio sconosciuto, in cui riconnettersi con se stesso, esplorare nuovi strumenti e scoprire strategie personali e originali.
Lo scopo dell’ascoltare empaticamente non è di comprendere l'altro intellettualmente o di provare le sue stesse emozioni (in questo caso parliamo più di ‘simpatia’), perché questo aumenterebbe il rischio di con-fonderci con lui/lei e di offrire diagnosi, critiche e suggerimenti, di spezzare la connessione e di puntare il riflettore da chi sta parlando, e vorrebbe essere ascoltato, a chi ascolta. Ciò non significa che chi ascolta non possa intervenire con riflessioni e osservazioni personali, ma sarebbe meglio che lo facesse in un secondo momento, rispettando il tempo necessario a creare quella danza compassionevole e intima che caratterizza, appunto, l'ascolto empatico. Con la connessione empatica siamo con chi parla, cioè scegliamo di percorrere insieme quella via di totale accoglienza e apertura collegandoci a ciò che è vivo in noi nel qui e ora. Quando ascoltiamo empaticamente ciò che ci muove verso l’altro è un sentimento compassionevole: chi ascolta con compassione ed empatia sente il proprio dolore e quello altrui e, contemporaneamente, esprime l’intenzione di prendersi cura di questa sofferenza.
L’ascolto empatico e la compassione, dunque, sono degli ingredienti fondamentali quando scegliamo di percorrere la strada della connessione con gli altri e con i nostri figli.
Riprendendo la domanda iniziale ‘perché non mi ascolti?’ e alla luce delle nostre riflessioni possiamo presumere che, se da un lato la persona che la pone ha un forte desiderio di connessione, dall’altro esprime anche una disperazione urlata, come se dicesse ‘sento l'urgenza di dirti alcune cose ma non so come fare a creare un dialogo efficace’. Questa domanda, tuttavia, può creare chiusura in colui che la riceve e, anziché gettare le basi per un dialogo empatico, può facilmente attivare un movimento di protezione e resistenza. Vediamo di capirne le motivazioni.
Innanzitutto, la particella "mi" può indurre a pensare che la comunicazione sia unidirezionale: io parlo e tu ascolti. Invece una comunicazione nonviolenta, come abbiamo visto, mette l'accento sulla reciprocità del processo comunicativo. Dialogare è una danza a due e quindi necessita di una relazione a doppio senso in cui non vi è una posizione di superiorità o di sottomissione tra le parti ma un rispettoso equilibrio di "potere".
Inoltre, il rischio di bloccare il dialogo chiedendo ‘perché non mi ascolti?’ è molto elevato in quanto chi pone questa domanda difficilmente si collegherà realmente alla comprensione dei sentimenti e dei bisogni e il ricevente probabilmente interpreterà la richiesta come una pretesa: io parlo e tu devi ascoltare.
Infatti, queste domande autoreferenziali non aiutano il ragazzo a mettersi in contatto con i movimenti interiori, e quindi a collegarsi ai suoi valori più profondi, ma, facilmente, emergeranno sentimenti di impotenza, solitudine e insicurezza.
Potrebbe sembrare un'eccessiva attenzione ma, se pensiamo alle difficoltà comunicative che spesso rendono difficile il dialogo con i nostri bambini (e non solo), mettere in dubbio alcune modalità che rendono poco armoniosa la comunicazione potrebbe offrire un nuovo sguardo utile per la costruzione di un approccio più gentile e sincero.
Dunque, da dove iniziare? Credo che potremmo provare a gettare nuovi semi di fiducia e compassione affinché piano piano si sostituiscano parole che fanno leva sul senso di colpa, sul giudizio e sulla vergogna con altre, più amorevoli e oneste.
Nel concreto, potremmo cominciare a prendere consapevolezza di tutto ciò che blocca l'empatia: giudizi, critiche, diagnosi, consigli e rassicurazioni. Quando ascoltiamo empaticamente tutto il nostro essere è presente e intenzionato a sentire veramente. Siamo in silenzio e il nostro cuore è morbido e ricettivo. Ci mostriamo curiosi e invece di offrire soluzioni e strategie facciamo delle domande per capire ciò che è davvero vivo nel nostro interlocutore. Per esempio, potremmo dire: percepisco che per te è veramente importante…; vorrei sapere cosa ne pensi su ciò che ti sto rimandando...; intuisco che ciò che stai condividendo con me per te è vitale, è così? Sono esempi semplici ma credo che chiariscano bene che ciò che differenzia un dialogo che aliena dalla vita da uno che sceglie di ‘parlare pace’ sia, fondamentalmente, l'intenzione: l'intenzione di connettermi profondamente alla tua energia divina, rispettare ciò che sto ricevendo (anche se non lo condivido) e infine collegarmi a ciò che è vivo in te e al nostro comune desiderio di arricchirci reciprocamente la vita.