Come un cammello in una grondaia
Ti sei mai chiesto quale funzione hai?
Ti sei mai chiesto quale funzione hai?
Domanda amletica tra le vigne dell’esistenza, mentre si è normalmente intenti ad affastellare successi. The company, my company facendo un salto temporale. Ma è da questo quesito che partiamo tutti quando volgiamo lo sguardo verso i cunicoli interiori. Così partì anche Francesco Battiato, in arte Franco, al suo secondo exploit discografico (Pollution) sullo sfondo di un valzer di Strauss. Era il 1972 e la sperimentazione sonora racimolava consensi tra i giovani: più si architettavano atmosfere inusuali, più ci si spingeva oltre e più la controcultura apprezzava. Battiato aveva appena intrapreso un percorso di vita, raccontava di dover fuggire, di scendere dagli autobus con fretta e angoscia perché non capiva la gente, la respingeva. Così, buttandosi su un pavimento agli inizi degli anni ’70 per iniziare a meditare, un giovane ragazzo catanese emigrato al Nord in cerca di fortune fronteggiava i suoi demoni interiori. Lui non poteva saperlo ma erano solo le note di copertina della biografia del più grande compositore pop (?) del secondo Novecento italiano.
Il Maestro non c’è più. Se n’è andato, trasfigurandosi nel nulla. Torneremo ancora perché destinati a errare, nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione. Lo abbiamo avuto tra noi per molti anni, ci ha fatto ballare, cantare, commuovere. Ci ha fatti evolvere. “Sei il mio guru!” gridò un tizio alle mie spalle durante una tappa della tournee de L’imboscata a metà anni ‘90. No, Battiato non era un guru e a dirla tutta detestava anche la nomea di “Maestro”. Battiato è stato un uomo collegato alle zone più alte, intelletto vorace, talento smisurato. Ma soprattutto ha cercato di fornire tutte le possibili risposte alla sua funzione ricercando il contatto con l’anima. La scoperta di Gurdjieff attraverso gli scritti dell’allievo Ouspensky, il buddismo tibetano, il sufismo, i mistici indiani. “Non aveva una religiosità confessionale” è toccato ammettere a Padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica. In realtà Battiato non era ascrivibile a un ruolo né a un destino, se non al suo.
Un’enciclopedia monografica non basterebbe a raccontare adeguatamente il Maestro. Da quando la triste notizia è divenuta di dominio pubblico, il 18 maggio scorso, il suo nome è risuonato urbi et orbi, protagonista del chiacchiericcio da bar e da bacheche social fino a un certo florilegio di articoli mainstream. Inevitabile per chi assurge a icona. Suo malgrado naturalmente. Battiato è imperscrutabile e inarrivabile, troppo vasto per l’odierna umanità infragilita e narcotizzata. I più ne conoscono i grandi successi, quasi “inni” popolari (Centro di gravità permanente, Bandiera bianca, Cuccurucucù, E ti vengo a cercare, fino a Povera Patria e La cura), piacevoli e talvolta divertenti specchietti per le allodole. La nanoscopica voce della scrittrice Michela Murgia, ideale testimonial di una contemporaneità pedestre e volgare, ci ha elargito lo sgradito piacere di dirci la sua sulle “minchiate assurde” contenute nei testi dell’autore de La voce del padrone. Vuoto di senso, senso di vuoto. Opinione legittima, ci mancherebbe. Opinione probabilmente di molti. Così sia dunque, giacché ogni epoca ha le figurine che si merita.
Si diceva che circoscrivere Franco Battiato è impossibile. Il suo viaggio è stato segnato dal comune denominatore di ricollegarsi al Tutto, all’Uno, spaziando, mantecando note e tradizioni, debordando nel cinema e nella pittura. Sono uno di quelli che crede che l’essere umano può fare tutto. Battiato il provocatore, l’avanguardista, lo sperimentatore, l’Artista totalmente distaccato dal mercato degli anni ’70, vincitore nel 1978 del premio internazionale Karlheinz Stockhausen. Battiato che vuole avere successo, primo in Italia a superare il milione di copie vendute con un long playing, che divulga esoterismo e pratiche trascendenti in un pop che fa presa a prescindere, che scrive Prospettiva Nevski dall’inizio alla fine come sotto dettatura, senza fermarsi. E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.
Battiato che intreccia la penna con quella del filosofo nichilista Manlio Sgalambro, che rimpingua le strofe di riferimenti letterari e paralleli ermetici, che fiuta nell’aria il declino della Prima Repubblica (Povera patria) e poi affonda il coltello nella Seconda citando l’occhio interiore (Inneres auge) e rimbalzando sul pubblico la vexata quaestio del perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti? su basi squisitamente dance. Battiato che scrive opere colte e sacre, che omaggia a suo modo i grandi della musica rock e pop nella trilogia Fleurs, che torna all’elettronica proprio sul finire di carriera, non prima di farsi cacciare dalla giunta della Regione Sicilia (nella quale era entrato poco prima per occuparsi di spettacolo e cultura) sopraffatto dal buonismo ipocrita tipicamente italico: il ben noto epiteto delle troie nel Parlamento italiano è ancora lì che macina applausi.
Cosa resta del Maestro? Tutto e niente. La sua opera è immortale, il suo lascito sconfinato. Mi basta una sonata di Corelli perché mi meravigli del creato. Anche noi possiamo fare altrettanto con L’oceano di silenzio e L’ombra della luce. Non vi è prezzo alcuno in tutto questo. Franco Battiato ha scavato una nicchia nella storia, ha tracciato un solco che è inebriante solo pensare di ripercorrere. Ma è pur vero che la sua opera pare un unicum privo di eguali, anche lontanissimi. Terminato l’ascolto di un suo disco, giunti in fondo all’ultimo brano, resta un senso di straniamento che dà vertigine. È forse l’Assoluto, quel senso di elevazione che sembra pervaderci inseguendo le melodie di questo Artista sconfinato ma dai modi gentili e compassionevoli. Ma è anche il senso del Vuoto, del baratro profondo in cui sembra discendere l’umanità con il passare del tempo, degli anni a venire, allontanatasi dalla ricerca del sacro e sempre più aggrappata a un neopositivismo razionalista tanto sterile quanto risibile. Battiato sembra segnare un confine. Molto poco dei contenuti così abilmente rivestiti e divulgati lungo l’arco della sua carriera trovano specchio nella contemporaneità.
La gente insomma, nella sua grande maggioranza, non ha capito nulla de L’era del cinghiale bianco, pur canticchiandone a memoria il ritornello. Nella tradizione celtica il Cinghiale Bianco rappresenta il potere spirituale, marginalizzato e messo alla berlina dal materialismo di quei rozzi cibernetici signori degli anelli, orgoglio dei manicomi che hanno impestato il mondo. Guardatevi intorno e ditemi se non li vedete ovunque, persi in questa aura di tecnocrazia scientista che sembra contenere le risposte a tutte le domande, anche a quelle ataviche, imperiture, connaturate all’essere umano. La musica segue lo stesso destino, non più viatico verso l’Assoluto o - più banalmente - strumento di espressione di sé, ma puro mercimonio, vacuo e inconsistente, spazzato costantemente via dal passare del tempo. Ci mancherai Maestro, anche se sappiamo che hai già raggiunto i regni di quiete. Noi che timorosi affrontiamo il transito terrestre proviamo a farci largo tra il branco di lupi che scende dagli altipiani ululando, consapevoli che tutto è addestramento per attraversare il bardo.