C'è ancora domani
C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi, entra nella storia del cinema sia per il record d’incassi, sia per lo stravolgimento del panorama cinematografico italiano contemporaneo.
La pellicola è riconducibile al genere della commedia all’italiana, ne ha tutti i crismi: tratta con toni comici e umoristici argomenti drammatici. E allo stesso tempo si discosta da qualsiasi film dello stesso genere, inventando un linguaggio del tutto nuovo, mai banale, che pure parte della critica non ha tardato, a mio avviso del tutto erroneamente, a definire didascalico. Sul simbolismo di ogni scena, che la regista decide di lasciare alla sensibilità del pubblico, si potrebbero scrivere trattati con tutti i caratteri della scientificità: le botte si trasformano in passi di danza, un’alleanza stretta con un soldato americano nero, un rossetto e una camicetta preparati per una fuga che sovverte lo stereotipo del cinema secondo cui è l’amore romantico a salvare la donna… Tutto il film parla di violenza, dalla prima scena, con uno schiaffo al posto del buongiorno, e se quasi sempre è lasciata sottointesa mai è per questo meno esplicita.
La storia di Delia, la protagonista interpretata dalla regista e, in parte, sceneggiatrice del film, è ambientata durante il dopoguerra, nel 1946. È una storia raccontata in bianco e nero, quasi a volerla relegare al passato, ma accompagnata da note di artisti contemporanei, che è solo uno dei tanti simboli (non lasciati al caso) della dialettica tra presente e passato. Si può infatti proporre una lettura secondo la quale non è un modo di incasellare la narrazione nel passato, ma piuttosto un espediente per riappropriarsi di una rivoluzione mai terminata, che non viene narrata nei libri di storia, quella storia scritta e tramandata da uomini e per uomini, da cui è sempre estromessa la figura femminile, raccontata solitamente in un paragrafetto marginale e incompleto che si esaurisce nella sintetica menzione del movimento delle suffragette.
La Cortellesi racconta al pubblico di tutte quelle donne che magari suffragette non lo furono e non avrebbero potuto esserlo. Quelle donne che pure sono state fautrici di una rivoluzione silenziosa che è eredità della storia di tutte e tutti, un capitolo mancante per la comprensione del presente. Si sta raccontando la storia di molte nonne italiane e, contemporaneamente, la vita di tante donne d’oggi. Il tasso d’occupazione femminile, secondo l’ultimo bollettino Istat, si attesta al 51.3%. Per dare una misura più concreta, il dato percentuale si traduce in 9.763.000 donne occupate contro 13.452.000 uomini, un dato che risulta tra i peggiori in Europa.
Eppure, Delia era tutt’altro che disoccupata, viene narrata come una donna che, anzi, svolge più di qualche lavoro retribuito (comunque meno di quello dell’apprendista inesperto, ma uomo). Che c’entra Delia con la disoccupazione femminile oggi? Leggiamo il dato dell’occupazione delle donne italiane in termini di storie di vita di dipendenza economica dall’uomo, dipendenza economica che è un enorme deterrente per le denunce di episodi di violenza domestica, che porta moltissime donne a continuare a subire violenza fisica e psicologica. Ad oggi una delle poche misure d’aiuto alle vittime è la previsione del c.d. Reddito di libertà, un sussidio di 400 euro al mese, cui solo il 50% delle donne che ne hanno fatto richiesta ha avuto accesso: l’Inps attesta che sono state accettate e pagate solo 2.673 delle 5.039 domande presentate. Nonostante Delia lavorasse, a fine giornata quasi tutta la paga andava a finire nelle mani del marito, facendole mancare l’indipendenza economica necessaria ad andarsene. In una scena la figlia, Marcella, le chiede perché non scappasse, la risposta rassegnata della madre è «ma ‘ndo vado?». Domanda che non è circoscrivibile al 1946, come ci indicano sia i dati sull’occupazione, sia quello sulla percentuale delle donne che non ha un conto corrente intestato a proprio nome, che si attestava nel 2021 al 37% (più di 1 donna su 3).
Nella domanda di Marcella c’è tutto il giudizio nei confronti di una madre inerte, succube di sevizie, incapace di rispondere al marito violento e senza alcuno spirito di ribellione. Ma qui sta tutta la rivoluzione silenziosa delle donne della generazione di Delia, che “ruba” una parte del proprio stipendio per permettere alla figlia di studiare, con quelle 8.000 lire messe da parte clandestinamente per comprarle il vestito da sposa, poi destinate emblematicamente a fare quel passo in più che lei non aveva potuto fare. È un’inerzia solo apparente. È un gesto che indica la rottura delle catene generazionali, che tantissime donne hanno contribuito a mettere in atto, e che pure non è fatto reputato degno di essere raccontato nei testi di storia. È il racconto di tutte quelle donne che, coi pochi mezzi a loro disposizione, hanno fatto di tutto per migliorare la propria vita e quella delle loro famiglie. Eppure, è anche, e soprattutto, sulle spalle di donne come Delia che si è fatta la storia del nostro Paese. Cortellesi riesce a mettere una toppa alla voragine del cinema italiano, soprattutto quello di grande distribuzione, in cui finora questo periodo storico è stato narrato solo dal punto di vista maschile.
Non è da relegare al passato neanche il finale, che senza scendere troppo nei dettagli, per evitare di rovinarlo a chi ancora non lo avesse guardato, si sostanzia nel riconoscimento di un diritto. E questo perché ancora oggi i diritti delle donne vengono costantemente messi in discussione, ancora oggi il dibattito politico va, ad esempio, al tema dell’aborto, facendo del corpo delle donne una questione normativa, non qualcosa di cui solo esse dovrebbero disporre, decidere e rispondere. Perché ancora oggi il corpo delle donne è un campo di battaglia.
Vorrei dedicare un’ultima riflessione a quella che è forse una delle scene più “comiche” della pellicola. Si tratta del siparietto tra il marito di Delia, interpretato da Valerio Mastrandrea, e il padre, in cui discutono su quante volte sarebbe opportuno picchiare una donna per educarla a non parlare, scena drammatica ma strutturata e scritta, nella forma, in modo da suscitare una risata. Questa scena in realtà sposta l’attenzione sul grande tema dell’educazione degli uomini. Gli uomini non sono (più) violenti perché lo sono per natura: lo sono per educazione, per eredità familiare e senz’altro, aggiungo, sociale. La violenza non è innata, si tramanda. Nonostante la mostruosità di questi uomini, Paola Cortellesi ne restituisce un’immagine pietosa, a tratti ridicola. Anche questa è una scelta interessante: si pensa sempre che il violento sia il forte, il vincente, mentre Cortellesi ci dimostra che è la prepotenza del debole, del perdente, è il linguaggio della paura che è l’unico codice linguistico che gli uomini messi in scena conoscono.