Quegli intramontabili amici miei - InEsergo

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18 Agosto 2022 - Cinema

Uno sguardo contemporaneo su ciò che resta di zingarate e supercazzole

Quegli intramontabili amici miei
  
Il 15 agosto 1975 usciva nelle sale cinematografiche “Amici Miei” diretto da Mario Monicelli (su idea di Pietro Germi). Sono passati quasi cinquant’anni. Inutile dilungarsi qui sul senso del film, su quanto si ispirasse alle storie vere di cinque amici livornesi degli anni ’30, sulle supercazzole di Corrado Lojacono. Di “Amici Miei” (e dei due seguiti) è stato sviscerato ogni particolare, risvolto, angolo della sceneggiatura. Quando Neri Parenti dieci anni fa ebbe l’infausta idea di realizzarne un prequel venne letteralmente fatto a pezzi, prima dal pubblico social e dalla critica, poi al botteghino. “Amici Miei” è infatti un cult senza tempo, un capolavoro del cinema italiano, della commedia (?) agrodolce e boccaccesca, è figlio irripetibile del suo tempo e in quella cornice va inevitabilmente perpetuato.

Semmai il punto è un altro: cosa resta oggi del mondo istoriato con le zingarate dei cinque figli di nessuno, dei sobillatori di caustiche fumisterie, degli amici inseparabilmente dediti al diniego della malinconia di fondo, di quel mal di vivere tanto grossolano quanto celato dai geniali lazzi? Si potrebbe proporre la visione del film nelle scuole e osservare la reazione degli esponenti della Generazione Z, nativi digitali, emersi dal brodo primordiale come ogni altro essere umano ma poi riaffogati sotto il pelo dell’acqua di una vita sempre più virtuale, bollata da un disagio crescentemente reale.

No, non è una curiosità pleonastica, da boomer nostalgico, perché io non mi ritengo boomer: io sono proprio vecchio, ed è bellissimo sentirsi analogici e scollegati. Quelli della mia generazione, nati negli anni di piombo, un po’ prima di Portobello e un po’ dopo Per voi giovani, sono fichissimi perché ne hanno già viste abbastanza ma non si sono ancora rincoglioniti del tutto, almeno non da dimenticare com’era il mondo prima che l’ipertrofia silicea degli ultimi venticinque anni ci immergesse nel suo fluido contagioso, rivoluzionando le nostre vite, rimpicciolendo l’ecumene.

E allora quali sarebbero gli esiti di cui si diceva? Non credo che presso gli attuali plessi scolastici, luoghi di educastrazione sistemica, si reputi particolarmente luminosa l’epopea di Tognazzi e soci. Ma se anche fosse, probabilmente le reazioni dei puberi sarebbero di imbarazzato distacco da un che di vecchio, trapassato, desueto, caduto in disuso come le vecchie cabine telefoniche, come i nomi dei gelati Motta sulle insegne degli anni ’70. Preistoria pura: gente che fuma nelle sale da biliardo, che per telefonare deve cercare un posto di telefono pubblico, che vaga senza una meta come gli zingari (vantandosene), che gira su inquinanti Fiat 125 e Oldsmobile ed entra nelle strade contromano. Ma c’è di più. L’ironia caustica dei cinque amici, che non risparmia né donne né suore, né vigili e né strozzini, neppure i morti, maschilista ed egoriferita, come potrebbe essere ammessa oggi dagli araldi del politicamente corretto, dell’arcobaleno progressista, della democrazia disciplinata dai factcheckers, della nuova economia green tautologicamente corretta?   

No. “Amici Miei” è un film che di questi tempi sarebbe intollerabile. Inaccettabile da chi propaga la schwa e l’asterisco come simboli della nuova inclusività, di una neutralità più rispettosa e piacente che fa inorridire l’Accademia della Crusca ma piace tanto alle nuove generazioni di insegnanti. Viviamo in un’epoca diversa da quella della toscanità intrisa di amarezza e traslata sul grande schermo. Ammettiamolo, rispetto al Sassaroli o al conte Mascetti siamo diventati più buoni. Siamo amorevoli, rispettosi, razionali, crediamo nella scienza. Se qualcuno la pensa diversamente, se non condivide le scelte dei più, ovviamente lo facciamo a pezzi, ma per il suo bene, per ricondurlo sulla via dei giusti. Soprattutto, siamo molto meno ironici. O forse lo siamo in maniera diversa: ci piace fare sintesi del mondo un meme dopo l’altro, con frasi ad effetto, accumulando followers, mostrando quell’ironia da intellettuale snob che piace tanto sia a destra che a sinistra, che non c’è più né destra né sinistra, ma in fondo chissenefrega. Quello ci piace. Supercazzolare un povero ebete, invece, ci sembrerebbe un po’ infame.
 
In fondo non siamo più nemmeno amici. Il divide et impera orchestrato ad arte ha fatto passi da gigante e negli ultimi due anni, etichetta dopo etichetta, un epiteto dopo l’altro, abbiamo fatto strame di ogni legame: non più parenti e fratelli, coniugi e conoscenti, ma buoni e cattivi, giusti e sbagliati. Vecchi affetti tramontati, defunti sotto i colpi dell’uniformità gregaria che non tollera né fake news (parliamone), né pensiero laterale. Figurarsi il diritto di sfottersi reciprocamente e di non prendersi mai sul serio di mascettiana memoria. La modernità ci insegna che sguinzagliare un po’ di haters e demolire qualcuno in rete è questione di un attimo: si punta il dito, si fa chiudere una pagina o un canale, si tacita nel nome dell’interesse comune e il gioco è fatto. Così, in maniera democratica, sorniona, oserei dire pedagogica.
 
 “Amici Miei” è la fotografia di un paese che non c’è più, ma che resiste ancora, in qualche risacca, nel bar del paese, tra le retrovie a bassa esposizione mediatica ricolme di cultura e buona cucina. Per questo recuperarne il valore (e il livore) storico, al di là delle gag tramandate di generazione in generazione, sarebbe essenziale. In fondo il malessere di chi è disilluso e non trova un senso, in un mondo allora stanziale e oggi turbinoso, resta lo stesso, almeno in quella tipologia di umani che fatica a identificarsi con gli archetipi che tanto piacciono alle multinazionali del pensiero unico: tutti uguali, apolidi, appena sedati e in rigorosa fila indiana. Occhio però a non estremizzarne la portata: a Mario Monicelli le celebrazioni, le agiografie, non sarebbero piaciute. I cinque mica erano santi, filosofi, eroi. Nemmeno influencer, per nostra fortuna.



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